Ciao,
il nuovo volantino realizzato da Flavio Tibaldi con l'indicazione del nostro blog e della mail.
Ciao
Vito Foschi
giovedì 31 marzo 2011
martedì 29 marzo 2011
Tea Party Piemonte scende in piazza il 10 aprile 2011 presso Torino Comics
Tea Party Piemonte scende in piazza il 10 aprile 2011 presso Torino Comics
La tassa sulla benzina va a finanziare il Fondo per lo spettacolo... Perché il cinema si e i fumetti no? Perché deve essere lo Stato a decidere che cosa è cultura e come si devono divertire i cittadini?
La tassa sulla benzina è una tassa orizzontale che colpisce tutti, ricchi e poveri e va finanziare un ben determinato gruppo sociale. Alla fine i poveri finanziarenno i divertimenti dei ricchi. Un povero sacrificherà certamente il cinema, ma non potrà eliminare gli spostamenti per lavoro o altre necessità.
Chi volesse partecipare al banchetto del 10 aprile ci contatti pure.
Che la rivoluzione abbia inizio.
La tassa sulla benzina va a finanziare il Fondo per lo spettacolo... Perché il cinema si e i fumetti no? Perché deve essere lo Stato a decidere che cosa è cultura e come si devono divertire i cittadini?
La tassa sulla benzina è una tassa orizzontale che colpisce tutti, ricchi e poveri e va finanziare un ben determinato gruppo sociale. Alla fine i poveri finanziarenno i divertimenti dei ricchi. Un povero sacrificherà certamente il cinema, ma non potrà eliminare gli spostamenti per lavoro o altre necessità.
Chi volesse partecipare al banchetto del 10 aprile ci contatti pure.
Che la rivoluzione abbia inizio.
sabato 26 marzo 2011
Il torneo di scopa
di Vito Foschi
Chi avesse un po' di tempo e di voglia di andare a spulciare le delibere delle varie circoscrizioni vedrebbe che la principale occupazione di tali enti è distribuire soldi a una moltitudine di associazioni. Indubbiamente siamo in periodo elettorale e la voglia di scontentare qualcuno è prossima a zero e perciò è facile trovare anche delibere prese all'unanimità. Sicuramente iniziative necessarie ci sono, altre non necessarie ma utili, ma altre non si capisce a cosa servano. Così dare soldi alla parrocchia per i poveri o finanziare un corso per bambini disabili sono azioni meritorie, ma non si capisce perché dare 500 euro per un torneo di scopa e pinnacola (Doc. n. 89/2010
2010 06400/092 approvata il 16 novembre). Premesso che l'associazione che chiedeva il finanziamento userà la propria sede come luogo di svolgimento del torneo, a cosa servono le 500 euro? Per comprare i mazzi di carte? Per i volantini? Oltre a ciò, era veramente necessario finanziare simile attività? Qualcuno potrebbe obiettare parlando di una goccia nel bilancio comunale, ma la somma delle gocce delle spese formano il mare dei debiti. E quei soldi vengono fuori dalle nostre tasche. Le tasse le vogliamo usare per i nidi, per i disabili, per gli anziani o per il torneo di scopa? Questa è la domanda da porsi.
2010 06400/092 approvata il 16 novembre). Premesso che l'associazione che chiedeva il finanziamento userà la propria sede come luogo di svolgimento del torneo, a cosa servono le 500 euro? Per comprare i mazzi di carte? Per i volantini? Oltre a ciò, era veramente necessario finanziare simile attività? Qualcuno potrebbe obiettare parlando di una goccia nel bilancio comunale, ma la somma delle gocce delle spese formano il mare dei debiti. E quei soldi vengono fuori dalle nostre tasche. Le tasse le vogliamo usare per i nidi, per i disabili, per gli anziani o per il torneo di scopa? Questa è la domanda da porsi.
Vedendo la moltitudine delle delibere con oggetto la distribuzione di fondi alle varie associazioni, suggerirei ai tanti disoccupati di creare un'associazione e chiedere un finanziamento per tornei di poker, burraco, scala quaranta e chi più ne ha, più ne metta.
venerdì 25 marzo 2011
Usa Lo Utah sfida la Federal Reserve: l’oro e l’argento diventano moneta
Tratto da Il Giornale del 25 marzo 2011
di redazione
Lo Utah non si fida della Fed e reagisce, dando il via libera alla possibilità di effettuare pagamenti in oro. Nei negozi potrebbero essere accettate le monete d’oro American Buffalo e l’Eagle in seguito al via libera della Camera e del Senato dello Utah a un progetto di legge per rendere l’oro e l’argento valuta. La Fed non è popolare tra il pubblico americano e molti Stati stanno considerando iniziative simile a quelle dello Utah. Secondo un sondaggio di Gallup, dal 2003 al 2009 la percentuale di americani che ha dichiarato che la Fed ha fatto un «buon» o «eccellente» lavoro è scesa dal 53% al 30%.
di redazione
Lo Utah non si fida della Fed e reagisce, dando il via libera alla possibilità di effettuare pagamenti in oro. Nei negozi potrebbero essere accettate le monete d’oro American Buffalo e l’Eagle in seguito al via libera della Camera e del Senato dello Utah a un progetto di legge per rendere l’oro e l’argento valuta. La Fed non è popolare tra il pubblico americano e molti Stati stanno considerando iniziative simile a quelle dello Utah. Secondo un sondaggio di Gallup, dal 2003 al 2009 la percentuale di americani che ha dichiarato che la Fed ha fatto un «buon» o «eccellente» lavoro è scesa dal 53% al 30%.
giovedì 24 marzo 2011
Lettera alle associazioni di categoria
Tratto da ConfContribuenti:
Gentili Signore e Signori,
in occasione delle elezioni comunali del 15 maggio 2011, noi di ConfContribuenti e Tea Party Italia organizziamo un’iniziativa a difesa dei contribuenti: chiederemo ai singoli candidati di impegnarsi formalmente ad abbassare la spesa pubblica e la tassazione comunale. Dopo le elezioni i firmatari eletti verranno monitorati e lodati o criticati pubblicamente a seconda che abbiano rispettato o violato l’impegno preso.
ConfContribuenti e Tea Party Italia sono associazioni apartitiche, non supportano alcuna lista o partito, ma solo i singoli candidati disposti ad impegnarsi per l’abbassamento delle imposte, di qualunque schieramento essi siano.
In quanto imprenditori, i vostri associati sono anche contribuenti. Questa iniziativa va quindi anche nel loro interesse. Un’adesione da parte della vostra associazione di categoria renderebbe più autorevole ed efficace l’iniziativa sotto ogni aspetto: da un lato i candidati sarebbero maggiormente tentati a sottoscrivere l’impegno, confidando di aumentare il loro consenso elettorale, dall’altro lato aumenterebbe il “peso contrattuale” dei contribuenti e l’efficacia della richiesta di riduzione della tassazione e degli sprechi.
Va rilevato il fatto che in campagna elettorale i candidati cercano di differenziarsi dai loro colleghi di partito per guadagnare le preferenze necessarie all’elezione. Come abbiamo avuto modo di sperimentare nel progetto pilota organizzato da ConfContribuenti per le regionali, la sottoscrizione di un impegno formale ad abbassare le tasse viene quindi divulgata dai candidati stessi.
Con l’adesione della vostra associazione di categoria all’iniziativa a difesa dei contribuenti vi chiediamo due cose:1) che ci autorizzate a rendere pubblica tale adesione nell’ambito della comunicazione che porremo in essere
2) che divulgate l’iniziativa e la vostra adesione tra i vostri associati nell’ambito della vostra normale comunicazione interna.
Non è richiesto alcun impegno economico da parte vostra: la vostra adesione sarà limitata ai due punti qui indicati e non comporterà alcuna autorizzazione ad utilizzare il vostro nome in nessun’altra occasione o nostra iniziativa.
Certi che l’iniziativa possa destare il vostro interesse, siamo disponibili per qualsiasi domanda e chiarimento all’indirizzo segreteria@confcontribuenti.eu Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. .
Vi preghiamo di darci una risposta in tempi adeguati (le liste saranno rese note a metà aprile, ma buona parte dei candidati sindaco sono già noti).
Cordiali saluti,
ConfContribuenti
Tea Party Italia
martedì 22 marzo 2011
Draghi: «Niente tasse ma tagli selettivi per ridurre il debito»
Tratto da Il Giornale del 22 marzo 2011
Draghi: «Niente tasse ma tagli selettivi per ridurre il debito»
Ma il governatore di Bankitalia si sofferma anche sui problemi strutturali dell’economia italiana. «Il debito pubblico, già molto alto, è salito ancora - ricorda - ma la sua gestione è stata prudente». E però il problema centrale è la «difficoltà strutturale a crescere: il difficile compito della politica economica è di cambiare questo stato di cose, riducendo al tempo stesso l’incidenza del debito sul Pil». L’aumento delle aliquote fiscali è «fuori discussione, anzi andrebbero diminuite con il recupero di evasione ed elusione». Non resta perciò che il controllo selettivo della spesa, orientato a distinguere fra interventi che favoriscono o meno la crescita. Una posizione differente rispetto a quella del governo, che nelle ultime manovre ha scelto la strada dei tagli di spesa orizzontali.
Secondo Draghi, le nuove regole europee sul debito non costituiscono per l’Italia un vincolo molto più stringente di quello già imposto dalle regola invigore sul pareggio strutturale di bilancio. L’Italia inoltre ha già fatto alcune riforme, come quella delle pensioni, che ci pongono in una situazione di sostenibilità del debito.
Parla anche di crisi, il governatore di Bankitalia, per dire che «non è finita, non si supera in un giorno, e gli effetti dureranno a lungo». Senza l’euro alcuni Paesi, e fra questi l’Italia, avrebbero potuto essere «travolti». Ora l’Europa cerca di darsi regole più stringenti sul debito. «Il nuovo patto - osserva però il governatore di Bankitalia - si ispira a principi corretti, con risultati incoraggianti ma non ancora sufficienti. In ogni caso - assicura - l’euro non è in discussione».
Draghi parla infine del caso Giappone e del possibile impatto dei prezzi energetici sull’inflazione. Ormai «le ripercussioni di choc esterni nei Paesi dell’Eurozona - afferma - sono molto contenute». I rincari del petrolio registrati nel 2007-2008 sono comparabili con quelli avuti negli anni Settanta, «ma hanno generato un rialzo una tantum dei prezzi al consumo inferiore ai due punti percentuali, che non si sono trasformati in inflazione». Secondo valutazioni della nostra banca centrale, l’effetto inflazionistico si è ridotto a un decimo di quello avuto con il primo shock petrolifero. In ogni caso la guardia sulla stabilità sui prezzi deve restare alta.
Quanto all’impatto del terremoto, la Banca mondiale indica una forbice fra 2,5 e 4 punti di calo del pil, «notevole - conclude Draghi - per il Giappone, ma modesto per l’Asia intera». Ora il Giappone dovrà uno sforzo eccezionale per finanziare la ricostruzione, e probabilmente dovrà emettere nuovi titoli di debito pubblico in un contesto già molto difficile.
domenica 13 marzo 2011
Basta soldi pubblici al teatro meglio puntare su scuola e tv
vi posto questo articolo dello scrittore Baricco che contrariamente a tanti suoi colleghi pensa che il mercato possa essere una soluzione per la cultura.
tratto da Repubblica
In questi tempi di crisi non si può più pensare che tutta la cultura
sia finanziata con i fondi statali. L'intervento pubblico ha prodotto stagnazione
Basta soldi pubblici al teatro
A queste due ragioni ne aggiungerei una terza, più generale, più sofisticata, ma altrettanto importante: la necessità che hanno le democrazie di motivare i cittadini ad assumersi la responsabilità della democrazia: il bisogno di avere cittadini informati, minimamente colti, dotati di principi morali saldi, e di riferimenti culturali forti. Nel difendere la statura culturale del cittadino, le democrazie salvano se stesse, come già sapevano i greci del quinto secolo, e come hanno perfettamente capito le giovani e fragili democrazie europee all'indomani della stagione dei totalitarismi e delle guerre mondiali.
Adesso la domanda dovrebbe essere: questi tre obbiettivi, valgono ancora? Abbiamo voglia di chiederci, con tutta l'onestà possibile, se sono ancora obbiettivi attuali? Io ne ho voglia. E darei questa risposta: probabilmente sono ancora giusti, legittimi, ma andrebbero ricollocati nel paesaggio che ci circonda. Vanno aggiornati alla luce di ciò che è successo da quando li abbiamo concepiti. Provo a spiegare.
Prendiamo il primo obbiettivo: estendere il privilegio della cultura, rendere accessibili i luoghi dell'intelligenza e del sapere. Ora, ecco una cosa che è successa negli ultimi quindici anni nell'ambito dei consumi culturali: una reale esplosione dei confini, un'estensione dei privilegi, e un generale incremento dell'accessibilità. L'espressione che meglio ha registrato questa rivoluzione è americana: the age of mass intelligence, l'epoca dell'intelligenza di massa.
Oggi non avrebbe più senso pensare alla cultura come al privilegio circoscritto di un'élite abbiente: è diventata un campo aperto in cui fanno massicce scorribande fasce sociali che da sempre erano state tenute fuori dalla porta. Quel che è importante è capire perché questo è successo. Grazie al paziente lavoro dei soldi pubblici? No, o almeno molto di rado, e sempre a traino di altre cose già successe. La cassaforte dei privilegi culturali è stata scassinata da una serie di cause incrociate: Internet, globalizzazione, nuove tecnologie, maggior ricchezza collettiva, aumento del tempo libero, aggressività delle imprese private in cerca di un'espansione dei mercati. Tutte cose accadute nel campo aperto del mercato, senza alcuna protezione specifica di carattere pubblico.
(24 febbraio 2009)
tratto da Repubblica
In questi tempi di crisi non si può più pensare che tutta la cultura
sia finanziata con i fondi statali. L'intervento pubblico ha prodotto stagnazione
Basta soldi pubblici al teatro
meglio puntare su scuola e tv
di ALESSANDRO BARICCO
Sotto la lente della crisi economica, piccole crepe diventano enormi, nella ceramica di tante vite individuali, ma anche nel muro di pietra del nostro convivere civile. Una che si sta spalancando, non sanguinosa ma solenne, è quella che riguarda le sovvenzioni pubbliche alla cultura. Il fiume di denaro che si riversa in teatri, musei, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni. Dato che il fiume si sta estinguendo, ci si interroga. Si protesta. Si dibatte. Un commissariamento qui, un'indagine per malversazione là, si collezionano sintomi di un'agonia che potrebbe anche essere lunghissima, ma che questa volta non lo sarà. Sotto la lente della crisi economica, prenderà tutto fuoco, molto più velocemente di quanto si creda.
In situazioni come queste, nei film americani puoi solo fare due cose: o scappi o pensi molto velocemente. Scappare è inelegante. Ecco il momento di pensare molto velocemente. Lo devono fare tutti quelli cui sta a cuore la tensione culturale del nostro Paese, e tutti quelli che quella situazione la conoscono da vicino, per averci lavorato, a qualsiasi livello. Io rispondo alla descrizione, quindi eccomi qui. In realtà mi ci vorrebbe un libro per dire tutto ciò che penso dell'intreccio fra denaro pubblico e cultura, ma pensare velocemente vuol dire anche pensare l'essenziale, ed è ciò che cercherò di fare qui.
Se cerco di capire cosa, tempo fa, ci abbia portato a usare il denaro pubblico per sostenere la vita culturale di un Paese, mi vengono in mente due buone ragioni. Prima: allargare il privilegio della crescita culturale, rendendo accessibili i luoghi e i riti della cultura alla maggior parte della comunità. Seconda: difendere dall'inerzia del mercato alcuni gesti, o repertori, che probabilmente non avrebbero avuto la forza di sopravvivere alla logica del profitto, e che tuttavia ci sembravano irrinunciabili per tramandare un certo grado di civiltà.
In situazioni come queste, nei film americani puoi solo fare due cose: o scappi o pensi molto velocemente. Scappare è inelegante. Ecco il momento di pensare molto velocemente. Lo devono fare tutti quelli cui sta a cuore la tensione culturale del nostro Paese, e tutti quelli che quella situazione la conoscono da vicino, per averci lavorato, a qualsiasi livello. Io rispondo alla descrizione, quindi eccomi qui. In realtà mi ci vorrebbe un libro per dire tutto ciò che penso dell'intreccio fra denaro pubblico e cultura, ma pensare velocemente vuol dire anche pensare l'essenziale, ed è ciò che cercherò di fare qui.
Se cerco di capire cosa, tempo fa, ci abbia portato a usare il denaro pubblico per sostenere la vita culturale di un Paese, mi vengono in mente due buone ragioni. Prima: allargare il privilegio della crescita culturale, rendendo accessibili i luoghi e i riti della cultura alla maggior parte della comunità. Seconda: difendere dall'inerzia del mercato alcuni gesti, o repertori, che probabilmente non avrebbero avuto la forza di sopravvivere alla logica del profitto, e che tuttavia ci sembravano irrinunciabili per tramandare un certo grado di civiltà.
A queste due ragioni ne aggiungerei una terza, più generale, più sofisticata, ma altrettanto importante: la necessità che hanno le democrazie di motivare i cittadini ad assumersi la responsabilità della democrazia: il bisogno di avere cittadini informati, minimamente colti, dotati di principi morali saldi, e di riferimenti culturali forti. Nel difendere la statura culturale del cittadino, le democrazie salvano se stesse, come già sapevano i greci del quinto secolo, e come hanno perfettamente capito le giovani e fragili democrazie europee all'indomani della stagione dei totalitarismi e delle guerre mondiali.
Adesso la domanda dovrebbe essere: questi tre obbiettivi, valgono ancora? Abbiamo voglia di chiederci, con tutta l'onestà possibile, se sono ancora obbiettivi attuali? Io ne ho voglia. E darei questa risposta: probabilmente sono ancora giusti, legittimi, ma andrebbero ricollocati nel paesaggio che ci circonda. Vanno aggiornati alla luce di ciò che è successo da quando li abbiamo concepiti. Provo a spiegare.
Prendiamo il primo obbiettivo: estendere il privilegio della cultura, rendere accessibili i luoghi dell'intelligenza e del sapere. Ora, ecco una cosa che è successa negli ultimi quindici anni nell'ambito dei consumi culturali: una reale esplosione dei confini, un'estensione dei privilegi, e un generale incremento dell'accessibilità. L'espressione che meglio ha registrato questa rivoluzione è americana: the age of mass intelligence, l'epoca dell'intelligenza di massa.
Oggi non avrebbe più senso pensare alla cultura come al privilegio circoscritto di un'élite abbiente: è diventata un campo aperto in cui fanno massicce scorribande fasce sociali che da sempre erano state tenute fuori dalla porta. Quel che è importante è capire perché questo è successo. Grazie al paziente lavoro dei soldi pubblici? No, o almeno molto di rado, e sempre a traino di altre cose già successe. La cassaforte dei privilegi culturali è stata scassinata da una serie di cause incrociate: Internet, globalizzazione, nuove tecnologie, maggior ricchezza collettiva, aumento del tempo libero, aggressività delle imprese private in cerca di un'espansione dei mercati. Tutte cose accadute nel campo aperto del mercato, senza alcuna protezione specifica di carattere pubblico.
Se andiamo a vedere i settori in cui lo spalancamento è stato più clamoroso, vengono in mente i libri, la musica leggera, la produzione audiovisiva: sono ambiti in cui il denaro pubblico è quasi assente. Al contrario, dove l'intervento pubblico è massiccio, l'esplosione appare molto più contratta, lenta, se non assente: pensate all'opera lirica, alla musica classica, al teatro: se non sono stagnanti, poco ci manca. Non è il caso di fare deduzioni troppo meccaniche, ma l'indizio è chiaro: se si tratta di eliminare barriere e smantellare privilegi, nel 2009, è meglio lasciar fare al mercato e non disturbare. Questo non significa dimenticare che la battaglia contro il privilegio culturale è ancora lontana dall'essere vinta: sappiamo bene che esistono ancora grandi caselle del Paese in cui il consumo culturale è al lumicino. Ma i confini si sono spostati. Chi oggi non accede alla vita culturale abita spazi bianchi della società che sono raggiungibili attraverso due soli canali: scuola e televisione. Quando si parla di fondi pubblici per la cultura, non si parla di scuola e di televisione. Sono soldi che spendiamo altrove. Apparentemente dove non servono più. Se una lotta contro l'emarginazione culturale è sacrosanta, noi la stiamo combattendo su un campo in cui la battaglia è già finita.
Secondo obbiettivo: la difesa di gesti e repertori preziosi che, per gli alti costi o il relativo appeal, non reggerebbero all'impatto con una spietata logica di mercato. Per capirci: salvare le regie teatrali da milioni di euro, La figlia del reggimento di Donizetti, il corpo di ballo della Scala, la musica di Stockhausen, i convegni sulla poesia dialettale, e così via. Qui la faccenda è delicata. Il principio, in sé, è condivisibile. Ma, nel tempo, l'ingenuità che gli è sottesa ha raggiunto livelli di evidenza quasi offensivi.
Il punto è: solo col candore e l'ottimismo degli anni Sessanta si poteva davvero credere che la politica, l'intelligenza e il sapere della politica, potessero decretare cos'era da salvare e cosa no. Se uno pensa alla filiera di intelligenze e saperi che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico, passando per i vari assessori, siamo proprio sicuri di avere davanti agli occhi una rete di impressionante lucidità intellettuale, capace di capire, meglio di altri, lo spirito del tempo e le dinamiche dell'intelligenza collettiva? Con tutto il rispetto, la risposta è no. Potrebbero fare di meglio i privati, il mercato? Probabilmente no, ma sono convinto che non avrebbero neanche potuto fare di peggio.
Mi resta la certezza che l'accanimento terapeutico su spettacoli agonizzanti, e ancor di più la posizione monopolistica in cui il denaro pubblico si mette per difenderli, abbiano creato guasti imprevisti di cui bisognerebbe ormai prendere atto. Non riesco a non pensare, ad esempio, che l'insistita difesa della musica contemporanea abbia generato una situazione artificiale da cui pubblico e compositori, in Italia, non si sono più rimessi: chi scrive musica non sa più esattamente cosa sta facendo e per chi, e il pubblico è in confusione, tanto da non capire neanche più Allevi da che parte sta (io lo so, ma col cavolo che ve lo dico).
Oppure: vogliamo parlare dell'appassionata difesa del teatro di regia, diventato praticamente l'unico teatro riconosciuto in Italia? Adesso possiamo dire con tranquillità che ci ha regalato tanti indimenticabili spettacoli, ma anche che ha decimato le file dei drammaturghi e complicato la vita degli attori: il risultato è che nel nostro paese non esiste quasi più quel fare rotondo e naturale che mettendo semplicemente in linea uno che scrive, uno che recita, uno che mette in scena e uno che ha soldi da investire, produce il teatro come lo conoscono i paesi anglosassoni: un gesto naturale, che si incrocia facilmente con letteratura e cinema, e che entra nella normale quotidianità della gente.
Come vedete, i principi sarebbero anche buoni, ma gli effetti collaterali sono incontrollati. Aggiungo che la vera rovina si è raggiunta quando la difesa di qualcosa ha portato a una posizione monopolistica. Quando un mecenate, non importa se pubblico o privato, è l'unico soggetto operativo in un determinato mercato, e in più non è costretto a fare di conto, mettendo in preventivo di perdere denaro, l'effetto che genera intorno è la desertificazione. Opera, teatro, musica classica, festival culturali, premi, formazione professionale: tutti ambiti che il denaro pubblico presidia più o meno integralmente. Margini di manovra per i privati: minimi. Siamo sicuri che è quello che vogliamo? Siamo sicuri che sia questo il sistema giusto per non farci derubare dell'eredità culturale che abbiamo ricevuto e che vogliamo passare ai nostri figli?
Terzo obbiettivo: nella crescita culturale dei cittadini le democrazie fondano la loro stabilità. Giusto. Ma ho un esempietto che può far riflettere, fatalmente riservato agli elettori di centrosinistra. Berlusconi. Circola la convinzione che quell'uomo, con tre televisioni, più altre tre a traino o episodicamente controllate, abbia dissestato la caratura morale e la statura culturale di questo Paese dalle fondamenta: col risultato di generare, quasi come un effetto meccanico, una certa inadeguatezza collettiva alle regole impegnative della democrazia. Nel modo più chiaro e sintetico ho visto enunciata questa idea da Nanni Moretti, nel suo lavoro e nelle sue parole. Non è una posizione che mi convince (a me Berlusconi sembra più una conseguenza che una causa) ma so che è largamente condivisa, e quindi la possiamo prendere per buona. E chiederci: come mai la grandiosa diga culturale che avevamo immaginato di issare con i soldi dei contribuenti (cioè i nostri) ha ceduto per così poco?
Bastava mettere su tre canali televisivi per aggirare la grandiosa cerchia di mura a cui avevamo lavorato? Evidentemente sì. E i torrioni che abbiamo difeso, i concerti di lieder, le raffinate messe in scena di Cechov, la Figlia del reggimento, le mostre sull'arte toscana del quattrocento, i musei di arte contemporanea, le fiere del libro? Dov'erano, quando servivano? Possibile che non abbiano visto passare il Grande Fratello? Sì, possibile. E allora siamo costretti a dedurre che la battaglia era giusta, ma la linea di difesa sbagliata. O friabile. O marcia. O corrotta. Ma più probabilmente: l'avevamo solo alzata nel luogo sbagliato.
Riassunto. L'idea di avvitare viti nel legno per rendere il tavolo più robusto è buona: ma il fatto è che avvitiamo a martellate, o con forbicine da unghie. Avvitiamo col pelapatate. Fra un po' avviteremo con le dita, quando finiranno i soldi.
Cosa fare, allora? Tenere saldi gli obbiettivi e cambiare strategia, è ovvio. A me sembrerebbe logico, ad esempio, fare due, semplici mosse, che qui sintetizzo, per l'ulcera di tanti.
1. Spostate quei soldi, per favore, nella scuola e nella televisione. Il Paese reale è lì, ed è lì la battaglia che dovremmo combattere con quei soldi. Perché mai lasciamo scappare mandrie intere dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno ad uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo? Che senso ha salvare l'Opera e produrre studenti che ne sanno più di chimica che di Verdi? Cosa vuol dire pagare stagioni di concerti per un Paese in cui non si studia la storia della musica neanche quando si studia il romanticismo? Perché fare tanto i fighetti programmando teatro sublime, quando in televisione già trasmettere Benigni pare un atto di eroismo? Con che faccia sovvenzionare festival di storia, medicina, filosofia, etnomusicologia, quando il sapere, in televisione - dove sarebbe per tutti - esisterà solo fino a quando gli Angela faranno figli? Chiudete i Teatri Stabili e aprite un teatro in ogni scuola. Azzerate i convegni e pensate a costruire una nuova generazione di insegnanti preparati e ben pagati. Liberatevi delle Fondazioni e delle Case che promuovono la lettura, e mettete una trasmissione decente sui libri in prima serata. Abbandonate i cartelloni di musica da camera e con i soldi risparmiati permettiamoci una sera alla settimana di tivù che se ne frega dell'Auditel.
Lo dico in un altro modo: smettetela di pensare che sia un obbiettivo del denaro pubblico produrre un'offerta di spettacoli, eventi, festival: non lo è più. Il mercato sarebbe oggi abbastanza maturo e dinamico da fare tranquillamente da solo. Quei soldi servono a una cosa fondamentale, una cosa che il mercato non sa e non vuole fare: formare un pubblico consapevole, colto, moderno. E farlo là dove il pubblico è ancora tutto, senza discriminazioni di ceto e di biografia personale: a scuola, innanzitutto, e poi davanti alla televisione.
La funzione pubblica deve tornare alla sua vocazione originaria: alfabetizzare. C'è da realizzare una seconda alfabetizzazione del paese, che metta in grado tutti di leggere e scrivere il moderno. Solo questo può generare uguaglianza e trasmettere valori morali e intellettuali. Tutto il resto, è un falso scopo.
2. Lasciare che negli enormi spazi aperti creati da questa sorta di ritirata strategica si vadano a piazzare i privati. Questo è un punto delicato, perché passa attraverso la distruzione di un tabù: la cultura come business. Uno ha in mente subito il cattivo che arriva e distrugge tutto. Ma, ad esempio, la cosa non ci fa paura nel mondo dei libri o dell'informazione: avete mai sentito la mancanza di una casa editrice o di un quotidiano statale, o regionale, o comunale? Per restare ai libri: vi sembrano banditi Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Adelphi, per non parlare dei piccoli e medi editori? Vi sembrano pirati i librai? È gente che fa cultura e fa business. Il mondo dei libri è quello che ci consegnano loro. Non sarà un paradiso, ma l'inferno è un'altra cosa. E allora perché il teatro no? Provate a immaginare che nella vostra città ci siano quattro cartelloni teatrali, fatti da Mondadori, De Agostini, Benetton e vostro cugino. È davvero così terrorizzante? Sentireste la lancinante mancanza di un Teatro Stabile finanziato dai vostri soldi?
Quel che bisognerebbe fare è creare i presupposti per una vera impresa privata nell'ambito della cultura. Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo. Se si hanno timori sulla qualità del prodotto finale o sull'accessibilità economica dei servizi, intervenire a supportare nel modo più spudorato. Lo dico in modo brutale: abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per produrre cultura e profitti. Basta con l'ipocrisia delle associazioni o delle fondazioni, che non possono produrre utili: come se non fossero utili gli stipendi, e i favori, e le regalie, e l'autopromozione personale, e i piccoli poteri derivati. Abituiamoci ad accettare imprese vere e proprie che producono cultura e profitti economici, e usiamo le risorse pubbliche per metterle in condizione di tenere prezzi bassi e di generare qualità. Dimentichiamoci di fargli pagare tasse, apriamogli l'accesso al patrimonio immobiliare delle città, alleggeriamo il prezzo del lavoro, costringiamo le banche a politiche di prestito veloci e superagevolate.
Il mondo della cultura e dello spettacolo, nel nostro Paese, è tenuto in piedi ogni giorno da migliaia di persone, a tutti i livelli, che fanno quel lavoro con passione e capacità: diamogli la possibilità di lavorare in un campo aperto, sintonizzato coi consumi reali, alleggerito dalle pastoie politiche, e rivitalizzato da un vero confronto col mercato. Sono grandi ormai, chiudiamo questo asilo infantile. Sembra un problema tecnico, ma è invece soprattutto una rivoluzione mentale. I freni sono ideologici, non pratici. Sembra un'utopia, ma l'utopia è nella nostra testa: non c'è posto in cui sia più facile farla diventare realtà.
Secondo obbiettivo: la difesa di gesti e repertori preziosi che, per gli alti costi o il relativo appeal, non reggerebbero all'impatto con una spietata logica di mercato. Per capirci: salvare le regie teatrali da milioni di euro, La figlia del reggimento di Donizetti, il corpo di ballo della Scala, la musica di Stockhausen, i convegni sulla poesia dialettale, e così via. Qui la faccenda è delicata. Il principio, in sé, è condivisibile. Ma, nel tempo, l'ingenuità che gli è sottesa ha raggiunto livelli di evidenza quasi offensivi.
Il punto è: solo col candore e l'ottimismo degli anni Sessanta si poteva davvero credere che la politica, l'intelligenza e il sapere della politica, potessero decretare cos'era da salvare e cosa no. Se uno pensa alla filiera di intelligenze e saperi che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico, passando per i vari assessori, siamo proprio sicuri di avere davanti agli occhi una rete di impressionante lucidità intellettuale, capace di capire, meglio di altri, lo spirito del tempo e le dinamiche dell'intelligenza collettiva? Con tutto il rispetto, la risposta è no. Potrebbero fare di meglio i privati, il mercato? Probabilmente no, ma sono convinto che non avrebbero neanche potuto fare di peggio.
Mi resta la certezza che l'accanimento terapeutico su spettacoli agonizzanti, e ancor di più la posizione monopolistica in cui il denaro pubblico si mette per difenderli, abbiano creato guasti imprevisti di cui bisognerebbe ormai prendere atto. Non riesco a non pensare, ad esempio, che l'insistita difesa della musica contemporanea abbia generato una situazione artificiale da cui pubblico e compositori, in Italia, non si sono più rimessi: chi scrive musica non sa più esattamente cosa sta facendo e per chi, e il pubblico è in confusione, tanto da non capire neanche più Allevi da che parte sta (io lo so, ma col cavolo che ve lo dico).
Oppure: vogliamo parlare dell'appassionata difesa del teatro di regia, diventato praticamente l'unico teatro riconosciuto in Italia? Adesso possiamo dire con tranquillità che ci ha regalato tanti indimenticabili spettacoli, ma anche che ha decimato le file dei drammaturghi e complicato la vita degli attori: il risultato è che nel nostro paese non esiste quasi più quel fare rotondo e naturale che mettendo semplicemente in linea uno che scrive, uno che recita, uno che mette in scena e uno che ha soldi da investire, produce il teatro come lo conoscono i paesi anglosassoni: un gesto naturale, che si incrocia facilmente con letteratura e cinema, e che entra nella normale quotidianità della gente.
Come vedete, i principi sarebbero anche buoni, ma gli effetti collaterali sono incontrollati. Aggiungo che la vera rovina si è raggiunta quando la difesa di qualcosa ha portato a una posizione monopolistica. Quando un mecenate, non importa se pubblico o privato, è l'unico soggetto operativo in un determinato mercato, e in più non è costretto a fare di conto, mettendo in preventivo di perdere denaro, l'effetto che genera intorno è la desertificazione. Opera, teatro, musica classica, festival culturali, premi, formazione professionale: tutti ambiti che il denaro pubblico presidia più o meno integralmente. Margini di manovra per i privati: minimi. Siamo sicuri che è quello che vogliamo? Siamo sicuri che sia questo il sistema giusto per non farci derubare dell'eredità culturale che abbiamo ricevuto e che vogliamo passare ai nostri figli?
Terzo obbiettivo: nella crescita culturale dei cittadini le democrazie fondano la loro stabilità. Giusto. Ma ho un esempietto che può far riflettere, fatalmente riservato agli elettori di centrosinistra. Berlusconi. Circola la convinzione che quell'uomo, con tre televisioni, più altre tre a traino o episodicamente controllate, abbia dissestato la caratura morale e la statura culturale di questo Paese dalle fondamenta: col risultato di generare, quasi come un effetto meccanico, una certa inadeguatezza collettiva alle regole impegnative della democrazia. Nel modo più chiaro e sintetico ho visto enunciata questa idea da Nanni Moretti, nel suo lavoro e nelle sue parole. Non è una posizione che mi convince (a me Berlusconi sembra più una conseguenza che una causa) ma so che è largamente condivisa, e quindi la possiamo prendere per buona. E chiederci: come mai la grandiosa diga culturale che avevamo immaginato di issare con i soldi dei contribuenti (cioè i nostri) ha ceduto per così poco?
Bastava mettere su tre canali televisivi per aggirare la grandiosa cerchia di mura a cui avevamo lavorato? Evidentemente sì. E i torrioni che abbiamo difeso, i concerti di lieder, le raffinate messe in scena di Cechov, la Figlia del reggimento, le mostre sull'arte toscana del quattrocento, i musei di arte contemporanea, le fiere del libro? Dov'erano, quando servivano? Possibile che non abbiano visto passare il Grande Fratello? Sì, possibile. E allora siamo costretti a dedurre che la battaglia era giusta, ma la linea di difesa sbagliata. O friabile. O marcia. O corrotta. Ma più probabilmente: l'avevamo solo alzata nel luogo sbagliato.
Riassunto. L'idea di avvitare viti nel legno per rendere il tavolo più robusto è buona: ma il fatto è che avvitiamo a martellate, o con forbicine da unghie. Avvitiamo col pelapatate. Fra un po' avviteremo con le dita, quando finiranno i soldi.
Cosa fare, allora? Tenere saldi gli obbiettivi e cambiare strategia, è ovvio. A me sembrerebbe logico, ad esempio, fare due, semplici mosse, che qui sintetizzo, per l'ulcera di tanti.
1. Spostate quei soldi, per favore, nella scuola e nella televisione. Il Paese reale è lì, ed è lì la battaglia che dovremmo combattere con quei soldi. Perché mai lasciamo scappare mandrie intere dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno ad uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo? Che senso ha salvare l'Opera e produrre studenti che ne sanno più di chimica che di Verdi? Cosa vuol dire pagare stagioni di concerti per un Paese in cui non si studia la storia della musica neanche quando si studia il romanticismo? Perché fare tanto i fighetti programmando teatro sublime, quando in televisione già trasmettere Benigni pare un atto di eroismo? Con che faccia sovvenzionare festival di storia, medicina, filosofia, etnomusicologia, quando il sapere, in televisione - dove sarebbe per tutti - esisterà solo fino a quando gli Angela faranno figli? Chiudete i Teatri Stabili e aprite un teatro in ogni scuola. Azzerate i convegni e pensate a costruire una nuova generazione di insegnanti preparati e ben pagati. Liberatevi delle Fondazioni e delle Case che promuovono la lettura, e mettete una trasmissione decente sui libri in prima serata. Abbandonate i cartelloni di musica da camera e con i soldi risparmiati permettiamoci una sera alla settimana di tivù che se ne frega dell'Auditel.
Lo dico in un altro modo: smettetela di pensare che sia un obbiettivo del denaro pubblico produrre un'offerta di spettacoli, eventi, festival: non lo è più. Il mercato sarebbe oggi abbastanza maturo e dinamico da fare tranquillamente da solo. Quei soldi servono a una cosa fondamentale, una cosa che il mercato non sa e non vuole fare: formare un pubblico consapevole, colto, moderno. E farlo là dove il pubblico è ancora tutto, senza discriminazioni di ceto e di biografia personale: a scuola, innanzitutto, e poi davanti alla televisione.
La funzione pubblica deve tornare alla sua vocazione originaria: alfabetizzare. C'è da realizzare una seconda alfabetizzazione del paese, che metta in grado tutti di leggere e scrivere il moderno. Solo questo può generare uguaglianza e trasmettere valori morali e intellettuali. Tutto il resto, è un falso scopo.
2. Lasciare che negli enormi spazi aperti creati da questa sorta di ritirata strategica si vadano a piazzare i privati. Questo è un punto delicato, perché passa attraverso la distruzione di un tabù: la cultura come business. Uno ha in mente subito il cattivo che arriva e distrugge tutto. Ma, ad esempio, la cosa non ci fa paura nel mondo dei libri o dell'informazione: avete mai sentito la mancanza di una casa editrice o di un quotidiano statale, o regionale, o comunale? Per restare ai libri: vi sembrano banditi Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Adelphi, per non parlare dei piccoli e medi editori? Vi sembrano pirati i librai? È gente che fa cultura e fa business. Il mondo dei libri è quello che ci consegnano loro. Non sarà un paradiso, ma l'inferno è un'altra cosa. E allora perché il teatro no? Provate a immaginare che nella vostra città ci siano quattro cartelloni teatrali, fatti da Mondadori, De Agostini, Benetton e vostro cugino. È davvero così terrorizzante? Sentireste la lancinante mancanza di un Teatro Stabile finanziato dai vostri soldi?
Quel che bisognerebbe fare è creare i presupposti per una vera impresa privata nell'ambito della cultura. Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo. Se si hanno timori sulla qualità del prodotto finale o sull'accessibilità economica dei servizi, intervenire a supportare nel modo più spudorato. Lo dico in modo brutale: abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per produrre cultura e profitti. Basta con l'ipocrisia delle associazioni o delle fondazioni, che non possono produrre utili: come se non fossero utili gli stipendi, e i favori, e le regalie, e l'autopromozione personale, e i piccoli poteri derivati. Abituiamoci ad accettare imprese vere e proprie che producono cultura e profitti economici, e usiamo le risorse pubbliche per metterle in condizione di tenere prezzi bassi e di generare qualità. Dimentichiamoci di fargli pagare tasse, apriamogli l'accesso al patrimonio immobiliare delle città, alleggeriamo il prezzo del lavoro, costringiamo le banche a politiche di prestito veloci e superagevolate.
Il mondo della cultura e dello spettacolo, nel nostro Paese, è tenuto in piedi ogni giorno da migliaia di persone, a tutti i livelli, che fanno quel lavoro con passione e capacità: diamogli la possibilità di lavorare in un campo aperto, sintonizzato coi consumi reali, alleggerito dalle pastoie politiche, e rivitalizzato da un vero confronto col mercato. Sono grandi ormai, chiudiamo questo asilo infantile. Sembra un problema tecnico, ma è invece soprattutto una rivoluzione mentale. I freni sono ideologici, non pratici. Sembra un'utopia, ma l'utopia è nella nostra testa: non c'è posto in cui sia più facile farla diventare realtà.
(24 febbraio 2009)
mercoledì 9 marzo 2011
Il Sindaco e il debito
di Vito Foschi
Qualche giorno fa, il Sindaco di Torino in visita all'inceneritore del Gerbido ha giustificato il debito della città dichiarando che nasceva dalle molteplici opere pubbliche intraprese tra cui i cento milioni investiti proprio per il termovalorizzatore. A parte la facile battuta, che tolti i cento milioni, ne rimangono altri 5600 milioni da giustificare, battuta che comunque nasconde una verità, ci si chiede se è proprio vero quello affermato dal Sindaco.
Un uomo viene considerato un buon padre di famiglia se sotto certe condizioni, fa un mutuo per acquistare la casa, ma già se fa un prestito per acquistare l'auto nuova si incomincia a guardarlo con sospetto. Se quell'uomo fa prestiti per le vacanze o per la Tv ultimo modello è solo un disgraziato. Ci si deve chiedere, quindi, a che pro nasce il debito di Torino. Sicuramente costruire l'inceneritore è una buona cosa, ma se pensiamo alle opere per le Olimpiadi non è più così. Se passate da via Giordano Bruno potete vedere il villaggio olimpico desolatamente vuoto. O la passerella olimpica. Sicuramente un'opera esteticamente valida, ma non si capisce bene a cosa serva. La stessa metropolitana, opera in linea teorica sicuramente meritoria e necessaria, ma con il tracciato così deciso non si capisce come possa risultare utile ai cittadini. Servirà solo per raggiungere il centro commerciale del Lingotto ed Eataly? Altra opera abbandonata è il famoso Palafuksas in Piazza della Repubblica, attualmente utilizzato solo come sostegno da qualche sfaccendato. Certo è gratificante avere un progetto redatto da un architetto famoso, ma in sostanza è come se il padre di famiglia acquistasse il cellulare all'ultima moda a debito e nulla più.
Altra cattedrale nel deserto è l'Arena Rock, pensata per i grandi concerti e sostanzialmente inutilizzata, quando tra l'altro esiste il Palaisozoaki che può ospitare concerti con una capienza di 18500 posti. Quanti Woodstock si potranno mai organizzare a Torino in un anno? E per quei rari eventi più importanti c'è sempre lo stadio. Aggiungiamo che non si capisce come un muro e qualche bagno possano venire a costare 5 milioni di euro. Chiaramente non vogliamo fare un elenco completo, ma solo qualche esempio per dimostrare che una maggiore oculatezza avrebbe evitato ai cittadini torinesi un debito pubblico così elevato.
pubblicato anche su Cronaca Qui:
http://www.cronacaqui.it/amico-reporter/12398_il-sindaco-e-il-debito.html
Qualche giorno fa, il Sindaco di Torino in visita all'inceneritore del Gerbido ha giustificato il debito della città dichiarando che nasceva dalle molteplici opere pubbliche intraprese tra cui i cento milioni investiti proprio per il termovalorizzatore. A parte la facile battuta, che tolti i cento milioni, ne rimangono altri 5600 milioni da giustificare, battuta che comunque nasconde una verità, ci si chiede se è proprio vero quello affermato dal Sindaco.
Un uomo viene considerato un buon padre di famiglia se sotto certe condizioni, fa un mutuo per acquistare la casa, ma già se fa un prestito per acquistare l'auto nuova si incomincia a guardarlo con sospetto. Se quell'uomo fa prestiti per le vacanze o per la Tv ultimo modello è solo un disgraziato. Ci si deve chiedere, quindi, a che pro nasce il debito di Torino. Sicuramente costruire l'inceneritore è una buona cosa, ma se pensiamo alle opere per le Olimpiadi non è più così. Se passate da via Giordano Bruno potete vedere il villaggio olimpico desolatamente vuoto. O la passerella olimpica. Sicuramente un'opera esteticamente valida, ma non si capisce bene a cosa serva. La stessa metropolitana, opera in linea teorica sicuramente meritoria e necessaria, ma con il tracciato così deciso non si capisce come possa risultare utile ai cittadini. Servirà solo per raggiungere il centro commerciale del Lingotto ed Eataly? Altra opera abbandonata è il famoso Palafuksas in Piazza della Repubblica, attualmente utilizzato solo come sostegno da qualche sfaccendato. Certo è gratificante avere un progetto redatto da un architetto famoso, ma in sostanza è come se il padre di famiglia acquistasse il cellulare all'ultima moda a debito e nulla più.
Altra cattedrale nel deserto è l'Arena Rock, pensata per i grandi concerti e sostanzialmente inutilizzata, quando tra l'altro esiste il Palaisozoaki che può ospitare concerti con una capienza di 18500 posti. Quanti Woodstock si potranno mai organizzare a Torino in un anno? E per quei rari eventi più importanti c'è sempre lo stadio. Aggiungiamo che non si capisce come un muro e qualche bagno possano venire a costare 5 milioni di euro. Chiaramente non vogliamo fare un elenco completo, ma solo qualche esempio per dimostrare che una maggiore oculatezza avrebbe evitato ai cittadini torinesi un debito pubblico così elevato.
pubblicato anche su Cronaca Qui:
http://www.cronacaqui.it/amico-reporter/12398_il-sindaco-e-il-debito.html
Nuova tappa di Tea Party Italia su suolo lombardo
sabato 26 marzo · 17.00 - 20.00 - PAVIA
Nuova tappa di Tea Party Italia su suolo lombardo: per la prima volta nella splendida città di Pavia!
Ospiti:
Oscar Giannino, giornalista,
Maurizio Zamparini, imprenditore,
Alessandro Cattaneo, sindaco di Pavia.
Interverranno:
- David Mazzerelli, coordinatore nazionale,
- Giacomo Zucco, coordinatore regionale Lombardia,
- Niccolò Fraschini, consigliere comunale Pavia,
- Stefano Magni, giornalista.
Ospiti:
Oscar Giannino, giornalista,
Maurizio Zamparini, imprenditore,
Alessandro Cattaneo, sindaco di Pavia.
Interverranno:
- David Mazzerelli, coordinatore nazionale,
- Giacomo Zucco, coordinatore regionale Lombardia,
- Niccolò Fraschini, consigliere comunale Pavia,
- Stefano Magni, giornalista.
lunedì 7 marzo 2011
Tasse e federalismo
vi riporto questo articolo del Corriere della Sera:
http://www.corriere.it/economia/11_febbraio_17/sensini-rizzo-tasse-federalismo_d0ae9930-3a63-11e0-a00e-b467f0f3f2af.shtml
http://www.corriere.it/economia/11_febbraio_17/sensini-rizzo-tasse-federalismo_d0ae9930-3a63-11e0-a00e-b467f0f3f2af.shtml
domenica 6 marzo 2011
I Vangeli liberali
Un mio articolo su Ultima Thule:
http://www.ultimathule.it/articolo/i-vangeli-liberali.html
Saluti
Vito Foschi
http://www.ultimathule.it/articolo/i-vangeli-liberali.html
Saluti
Vito Foschi
giovedì 3 marzo 2011
Il nido del Potere
Dato che il nido del potere è troppo piccolo perché ci si possano rannicchiare tutti insieme, esiste una eterna gara per vedere chi riuscirà a scacciarne gli altri. A questo fine si sono divisi in due partiti, quelli Dentro e quelli Fuori". Thomas Jefferson
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