giovedì 29 dicembre 2011

PRIVATIZZIAMO LA RAI

COMUNICATO STAMPA


Milano, 27 dicembre 2011
TEA PARTY ITALIA: PRIVATIZZIAMO LA RAI
La soluzione per abbattere il canone non può essere l'evasione, ma una sana privatizzazione dell'azienda

Tea Party Italia accoglie con grande entusiasmo la proposta del direttore di Libero, Maurizio Belpietro, che nell'editoriale di martedì 27 dicembre propone un modo per smettere di versare il canone alla RAI, rilanciando la proposta del 23 dicembre di Maria Giovanna Maglie. Poiché in materia fiscale, purtroppo, non si possono promuovere consultazioni popolari, Belpietro spiega come aggirare il problema, abrogando cioè gli articoli della legge del 1975 in cui si affidava alla Rai il servizio pubblico che ad oggi non sta svolgendo.
Il Tea Party Italia ha da sempre nel suo programma la privatizzazione della RAI. Per il Portavoce Nazionale, Giacomo Zucco “la proposta di Libero è un ottimo inizio e già la provocazione della Maglie di venerdì 23 dicembre ("Basta canone") era stata ben accolta dai nostri attivisti con numerose mail inviate all'indirizzo della redazione per sostenere questa causa”. L'idea alla base del referendum si limita a togliere alla RAI il servizio pubblico, l'obiettivo su cui Tea Party Italia si concentra sula privatizzazione integrale dei 3 canali.
Conclude Zucco "nessun servizio è utile se non è scelto liberamente dal cittadino. Ogni azione concreta contro lo stato attuale dell'informazione targata RAI e dello spreco di soldi pubblici che comporta, avrà il nostro sostegno".

Info:
Elisa Serafini, Pubbliche Relazioni e Media

martedì 27 dicembre 2011

Chi guadagna sovversivo è …


di Mauro Gargaglione

Il termine 'eversione' evoca trame, organizzazioni che agiscono nell'ombra, attentati, rapimenti, stillicidio di omicidi mirati. A chi ha attraversato gli anni piombo (all'epoca ero uno studente liceale), tornano alla mente i titoloni sulle 'trame eversive' rosse o nere e sui servizi deviati.

'Sovvertire' lo stato viene inteso da tutti come l'atto di abbattere violentemente le istituzioni esistenti. In realtà se ci pensiamo bene non si tratta di abbattere le istituzioni quanto di sostituire coloro i quali ne sono alla guida con lo scopo di orientare in maniera diversa il rapporto stato/individuo.

Oggi a nessuno verrebbe in mente di sostenere che lo stato italiano sia soggetto ad una minaccia eversiva paragonabile a quelle che abbiamo dovuto affrontare nel recente passato. Pur nel malcontento diffuso e nella credibilità delle istituzioni repubblicane ridotte ai minimi termini, non si avverte quell'aria di rivoluzione e di violenza dei cupi anni 70. Soprattutto non si vedono folle di epigoni di questa o quella ideologia predicare nelle scuole, sui giornali sulle strade la necessità di ribaltare la forma dello stato. 

Esiste oggi un messaggio eversivo anche solo lontanamente paragonabile ai disegni di ‘quei formidabili anni’?
Credo di sì, e ha una carica eversiva dirompente, MENO TASSE! Semplice semplice, MENO TASSE. Niente massimi sistemi, niente sociologia, niente filosofia, nessun bisogno di dotte disquisizioni o sedicente kultura a base di tomi incomprensibili e barbosi. Niente che un ortolano, un benzinaio o un imbianchino non possa capire. MENO TASSE.

Ma perchè queste due semplici paroline dovrebbero rappresentare una bomba eversiva? Che c'entra il gretto desiderio di avere più soldi in tasca con la sovversione dell'ordine dello stato? Per capirlo bisogna rispondere a questa domanda. Qual è il vero carburante dei mille mazzettari, dei mille e mille burocraticchi con potere di firma messi in quel posto per gestire le mille e mille leggine e regolamenti a cui i cittadini devono richiedere il permesso pure per cambiare le piastrelle del bagno?

Gendarmi, finanzieri, funzionari, messi comunali, incaricati di questo o quell'ufficio che bisogna saper dribblare per vivere. Commercialisti, tributaristi, fiscalisti, consulenti, unici depositari della capacità di interpretare, applicare, aggirare centinaia e migliaia di disposizioni di legge che fanno di un cittadino un 'colpevole' a prescindere. Che cosa nutre questo allucinante stato leviatano obeso e ottuso sotto il quale bisogna evitare a tutti costi di finire stritolato? LE TASSE! Più si riducono più la bestia soffre e più è obbligata a dimagrire.

Ovviamente il mostro è ottuso e scoordinato nei movimenti ma ha un enorme istinto di conservazione e riesce a mettere in atto efficaci strategie perchè non venga mai diminuito l'apporto calorico che fa di lui quel che è. Quindi elabora una serie di concetti e comportamenti con cui assicurarsi il pasto. Concetti quali il senso civico, l'orgoglio patrio, il bene comune (buono, contro l'interesse del singolo che è egoistico), l'obbedienza alle leggi spacciata per giustizia, il prelievo di enormi quantità di ricchezza nel nome della tutela delle fasce deboli, per mantenere invece intere regioni e culture nello stato di pigrizia mentale e fornendogli il necessario per vivere in cambio di consenso politico. E ancora, il mito della democrazia, spacciata come fine invece che essere solo un mezzo al servizio della Libertà. Democrazia che viene ossequiata  e celebrata a oltranza (ma solo fino a pagina due, chè non sia mai che si abusi dei referendum i quali van bene solo per la caccia al fringuello, non certo per l'ingresso in Europa o l'entrata in guerra, ops!, nelle missioni di pace). O anche, il mito dell'evasore che 'se tutti pagassero pagheremmo meno' (ma quando mai s'è visto). La liturgia dell'unità d'Italia, che ha sloggiato il vecchio messale della resistenza e dell'antifascismo (buono per la spranga di Capanna ma ormai obsoleto).

Tutto questo solo per, e con le TASSE.

Trovo perciò ‘MENO TASSE’ sommamente eversivo.
Si spiega quindi che lo stato si adoperi al massimo delle sue forze con leggi e controlli sempre più serrati e soffocanti perchè questo non accada. Che non si faccia alcun problema a fare carne di porco dei più elementari principi del diritto per cui è chi accusa che deve provare la colpevolezza dell'accusato e non il contrario. Che sia arrivato a cooptare un consiglio di amministrazione di banca a decidere delle nostre vite.

Tutto ciò forse l'imbianchino, il mobiliere e i suoi operai o il padroncino camionista non lo immaginano. Vorrebbero solo qualche soldo di più in tasca e che diminuissero le accise sul gasolio. Sono sovversivi senza kalashnikov, e sono molti di più dei pazzi assassini ubriachi di Marx o dei nostalgici del mascellone. Ora dopo quarant’anni posso dirlo, sono sovversivo anche io.

martedì 20 dicembre 2011

MONTI NON È DISPERATO, MA L'ITALIA ADESSO SÌ



COMUNICATO STAMPA

Milano, 16 dicembre 2011

MONTI NON È DISPERATO, MA L'ITALIA ADESSO SÌ
Una manovra fatta di tasse, senza riforme, senza tagli alla spesa. Senza coraggio e senza visione.
Peggio di così non era possibile.

Tea Party Italia prende atto, con notevole sconcerto e preoccupazione, che una maggioranza bulgara e bipartisan dell'attuale parlamento ha acconsentito, votandola, una manovra i cui effetti saranno inevitabilmente depressivi per tutto il nostro sistema economico.
Dichiara Giacomo Zucco, Portavoce nazionale del movimento: "Siamo certi che i parlamentari che oggi hanno dato il loro consenso a questi provvedimenti avranno seria difficoltà ad ottenere nuovamente quel consenso e quella fiducia popolare che ha permesso loro di essere eletti. Apprezziamo il gesto di tutti coloro che, vicini al Tea Party, non hanno votato la manovra".
L'impianto del provvedimento si basa drammaticamente non sui rimedi ma su quelle che sono con tutta evidenza le cause principali della gravità della situazione in cui versa l'Italia: una pressione fiscale ormai insostenibile ed una sostanziale assenza di provvedimenti seri che pongano un argine ad una spesa pubblica fuori controllo. Da parte di questo esecutivo, imposto dal Presidente della Repubblica e non votato dai cittadini, manca qualsiasi reale intento riformatore.
La debolezza del provvedimento si constata inoltre nell'assenza delle liberalizzazioni necessarie in moltissimi settori, fra cui quello degli ordini professionali per le quali il governo Monti rappresentava a detta di molti, l'attesa discontinuità. Il risultato è una triste genuflessione allo status quo.
I Tea Party italiani continueranno a battersi in tutta Italia contro la deriva statalista del nostro paese e contro un fisco sempre più oppressivo ed invadente. Conclude Giacomo Zucco: "La proposta di riforme che abbattano la spesa e riducano le tasse non è più un'opzione fra le tante ma è la necessità primaria del nostro paese. Chi non va in questa direzione ci porterà inevitabilmente alla rovina".

lunedì 19 dicembre 2011

Aforisma contribuente

"Il contribuente è una persona che lavora per lo Stato, ma non ha dovuto vincere un concorso pubblico" (1984).

Ronald Reagan

giovedì 15 dicembre 2011

Tea Party Italia sulla prima pagina di Libero

Vi segnaliamo con orgoglio l'articolo di Libero, prima pagina, che cita il Tea Party Italia
 
Libero 1° pagina, a firma di Maria G. Maglie: 
"Lanciamo un bel movimento tosto contro le tasse inique, che incatenano la nostra vita e bloccano l’economia del Paese. Su Libero siamo pronti e abbiamo da perdere solo le nostre catene.  È più serio e più importante di qualunque lamentazione sulla casta, che è quel che è e se continua così si autodistrugge, è un sentimento profondamente condiviso, una rabbia vera e giusta. Facciamolo con quelli del Tea party Italia, diamogli una mano,  from the roots, dalle radici del Paese". 


 

lunedì 12 dicembre 2011

MISERIA E RECESSIONE: LA MANOVRA DI MONTI CI RENDERÀ TUTTI PIÙ POVERI

Milano, 5 dicembre 2011

MISERIA E RECESSIONE: LA MANOVRA DI MONTI CI RENDERÀ TUTTI PIÙ POVERI
20 miliardi di nuove tasse: chi voterà questi decreti si assume la responsabilità di portarci alla rovina


Il movimento Tea Party Italia, che si batte contro l'eccessivo carico fiscale del nostro paese, si dichiara sconcertato e preoccupato da quella che definisce una manovra ingiusta, incompleta e dagli effetti recessivi. "La manovra è un concentrato della solita politica irresponsabile e vessatrice - dichiara il portavoce nazionale Giacomo Zucco - e lo dimostrano l’aumento folle della tassazione sugli immobili (prima casa inclusa), l’aumento delle addizionali regionali, l'ennesimo aumento delle accise sul carburante, la preparazione per un ulteriore aumento dell’IVA e l’aumento della tassazione sugli strumenti di risparmio e investimento”.
“Si potrebbe pensare che questo sia il prezzo politico imposto dal governo Monti per riforme risolutive dell'emergenza-debito in cui ci troviamo ma non è così: lo stock di debito non viene ridotto, la crescita non viene incentivata. Più che una manovra Salva-Italia la definiremmo una manovra Rovina-Italia."
Tea Party Italia crede che in tempi di crisi si debbano applicare misure che tendano ad alleggerire il peso dello stato nella vita delle persone non ad aumentarlo. La strada per la crescita è diminuire una spesa pubblica insostenibile ed alleggerire il peso delle tasse, non il contrario. Al fine di evitare la recessione sarebbe doveroso lasciare più soldi nelle tasche dei cittadini, non svuotarle come si accinge a fare Monti.
Quello che propone questo governo tecnico va nella direzione opposta alla crescita, portando soltanto ulteriori nuove tasse, in un sistema già ampiamente vessato come quello italiano, e conseguente miseria. Conclude Giacomo Zucco: "Chi non avrà vergogna di votare questa manovra si assumerà la responsabilità davanti a tutti i cittadini di portare l'Italia alla recessione".

Elisa Serafini
Resp. PR e media 

martedì 6 dicembre 2011

Non avrai altro Dio all’infuori dello Stato

Intervista a Carlo Lottieri

di Luciano Capone
 


Può sembrare assurdo pensare che lo Stato moderno sia una religione. Se leggete Credere nello Stato? – teologia politica e dissimulazione da Filippo il Bello a Wikileaks di Carlo Lottieri, vi ricrederete. Anzi, è probabile che diventiate apostati della “forma più sofisticata e potente di dominio dell’uomo sull’uomo”. Non a caso in copertina c’è l‘effige dell’incoronazione di Bokassa, massima manifestazione della signoria antropofaga dello Stato. Il filosofo libertario in maniera semplice ed efficace, pur trattando temi astratti e complessi, va alla ricerca della legittimazione dello Stato e prova a separare il destino del liberalismo da quello del potere istituzionalizzato e centralizzato.
Quindi, Professore, i termini “religione civile”, “Bibbia laica” (riferito alla Costituzione) o “patriottismo costituzionale” non sono un mero artificio retorico. Per lei davvero lo Stato si considera una religione?
Lo Stato è un’entità moderna ed europea che ha avuto bisogno di poggiare su fondamenta metafisiche. Gli apparati politici della modernità sono riusciti a usare il cristianesimo quale strumento di legittimazione e, in una seconda fase, se ne sono liberati per affermarsi essi stessi come divinità. In linea di massima si pensa che il linguaggio para-religioso, o in qualche caso anche esplicitamente sacrale, che è impiegato dagli uomini di Stato e da molti intellettuali schierati a difesa delle istituzioni moderne, rinvii a similitudini. Non credo, e non si tratta neppure di lapsus. Lo Stato non può accontentarsi di disporre dei nostri soldi e delle vite perché, se non dispone anche delle nostre anime, rischia di perdere tutto.
Già un autore come Carl Schmitt aveva parlato di “teologia politica”. Vuol dire forse che la secolarizzazione in realtà non è mai avvenuta? Dietro ogni concetto politico c’è sempre la prospettiva della fede?
Per Schmitt, e penso che avesse ragione, il processo moderno di secolarizzazione, non conduce verso un’età in cui nessuno non crede più a nulla. In realtà apre la strada a nuovi credo e, in particolare, al trionfo del Dio-Stato. La politica finisce per togliere spazio alle comunità religiose, alle tradizioni, alle famiglie e alle imprese, ma questo esito non sarebbe comprensibile se non cogliessimo come il Potere moderno realizzi una forma di mimesi del Dio cristiano: se Dio è eterno, lo Stato si vuole perpetuo, se Dio è creatore lo Stato si rappresenta quale sovrano.
Sono esistiti Stati che imponevano l’ateismo (nei paesi comunisti) o anche una forma di “religione dello Stato” (la Francia rivoluzionaria). Ma oggi in Occidente esiste la libertà religiosa, come fa a dire che lo Stato è una religione se dà libertà di culto?
Quella statuale è una “tolleranza dimezzata”. Lo Stato ci lascia di liberi di essere buddisti o cattolici, atei o ebrei ortodossi, musulmani o agnostici, ma su una cosa non transige: dobbiamo essere cittadini. Nel rapporto con lo Stato il cittadino-suddito (che è suddito perché non può sottrarsi alla propria condizione) non deve soltanto pagare le imposte e obbedire alle decisioni del ceto politico, ma soprattutto deve in qualche modo accettare i dogmi, i riti, le mistificazioni e le rappresentazioni sacre che lo Stato costruisce attorno a sé. Le cosiddette “celebrazioni” dei 150 anni dall’unità ne sono state una prova evidente.
Già dopo la Rivoluzione francese Tocqueville si era accorto che l’apparato statale e burocratico era diventato più imponente. La vittoria contro l’Assolutismo ha quindi posto le basi per una maggiore concentrazione del potere?
In larga misura è così. La nuova situazione aperta dalle logiche rivoluzionarie ha avuto alcune conseguenze: centralizzazione, spersonalizzazione, rappresentazione. Questi cambiamenti hanno permesso, nel corso dei decenni, che i nuovi governanti finissero per disporre in maniera ancor più significativa dei loro sudditi. Qui non si tratta evidentemente di rimpiangere l’ancien Régime, ma di sottolineare che, se gli antichi sovrani secenteschi potessero tornare in vita, sarebbero pieni di ammirazione di fronte al controllo minuzioso e tendenzialmente totalitario che gli Stati post-rivoluzionari sono riusciti a predisporre.
Ma se ora c’è lo Stato e prima c’era l‘Assolutismo, c’è mai stato un periodo storico in cui individui e libertà erano maggiormente garantiti?
La storia della libertà è una storia difficile da tracciare. Nel libro mi sforzo di mostrare come alcune libertà siano state meglio tutelate in taluni periodi e altre in altri. È però vero che l’ordine giuridico medievale, benché presti il fianco a molte e motivate critiche, avesse quanto meno il vantaggio di avere evitato ogni concentrazione del potere. La frammentazione istituzionale e la sovrapposizione dei livelli giuridici ha creato uno spazio di libertà che ha visto emergere il capitalismo e che ha aiutato enormemente gli europei a sviluppare scienza ed economia.
Il pensiero di tradizione comunista, che ha criticato lo Stato partendo da basi puramente economiche, si è poi a sua volta trasformato in una religione. È una tendenza del potere in generale quella di acquisire caratteri religiosi?
In qualche modo sì, perché ogni potere ha bisogno di legittimarsi e non esiste una forma di legittimazione più potente. Bisogna sempre tenere a mente quanto sia innaturale il fatto che alcuni uomini sottraggano sistematicamente risorse ad altri uomini, o il fatto che alcuni costringano altri a obbedire, a combattere, a credere in taluni principi. Per realizzare tutto questo la classe politica deve controllare la violenza, ma deve soprattutto penetrare nei cuori. Ecco perché è così frequente ritrovare elementi di “religiosità civile” nella retorica posta a protezione delle nostre istituzioni, che pure si dicono “laiche”.
Una obiezione al suo ragionamento: in questo momento, si pensi alla situazione attuale dell’Italia o della Grecia, gli Stati perdono potere a favore degli organismi internazionali senza nemmeno opporre troppa resistenza. Sta crollando la teologia che sorregge lo Stato?
La nostra situazione è paradossale. Di fatto lo Stato sta entrando in crisi, ma noi non riusciamo a concepire la vita sociale al di fuori delle sue logiche, con il risultato che gli organismi internazionali rischiano di riprodurre – e per giunta a un livello potenziato – i vizi della statualità. Tra l’altro lo Stato sorge essenzialmente alla periferia dell’Europa (Sicilia, Francia, ecc.) e nasce dalla sconfitta del tentativo imperiale. Ciò che non riuscì all’imperatore fu invece ottenuto dai re. Ora il rischio è di vedere i nuovi sovrani cartellizzarsi in un edito e minaccioso Impero.
Vista la sua tesi, la maggior parte dei liberali classici e dei libertari ha forse sbagliato nel pensare di poter condurre una lotta al potere statale che fosse solo di tipo economico?
Mostrare l’irrazionalità e di conseguenza il carattere fallimentare dei sistemi economici sociali organizzati dall’alto – in vario modo regolati, pianificati, programmati – è importante. Ma ritengo che un liberalismo consapevole debba cercare di comprendere per quali ragioni il potere è tanto forte e perché, in una nuova versione della “sindrome di Stoccolma”, molte vittime sono così innamorate dei propri carcerieri. Un liberalismo dei diritti che non poggi in qualche modo sul riconoscimento della trascendenza dell’altro – del valore assoluto del prossimo – è destinato prima o poi a dissolversi.
 
pubblicata in origine su Fare Italia Mag all'indirizzo:
Per gentile concessione dell'autore

lunedì 5 dicembre 2011

Lo spread

di Raffaele Terlizzi

Per spread si identifica una differenza tra un prezzo ed un altro. Quando si parla di spread tra BTP e Bund tedesco, altro non è che la differenza del rendimento tra i 2 titoli. Questa differenza è un indice di quanto sia sicuro il debito. Viene presa la Germania come riferimento perchè i suoi tassi sono i più bassi.
Gli stati si finanziano emettendo obbligazioni (BTP, BOT, CCT). In questo caso prenderemo in esame il BTP. Il BTP (Buono Pluriennale del Tesoro) viene emesso dallo stato attraverso delle aste pubbliche.
Io stato chiedo un prestito di un miliardo di euro, te lo restituisco tra 10 anni e ti pago un interesse del 4% ogni anno. Per convalidare questo contratto lo stato emette il Buono Pluriennale del Tesoro.
Il detentore del buono ogni anno riceverà l'interesse pattuito. L'interesse che paga lo stato è fisso per i prossimi 10 anni. Io che detengo il btp posso avere necessità di rientrare del capitale investito, non posso richiederlo allo stato prima di 10 anni e quindi mi rivolgo al mercato. Il mio BTP verrà quindi comprato da qualcuno che invece gli avanzano dei soldi e vuole investirli. A quale prezzo verrà effettuata la transazione? Ai prezzi del mercato. Qui intervengono gli spread. Se il mercato fa calare il prezzo del BTP (quindi il capitale investito) io riceverò un interesse maggiore. Lo stato continua a pagare il 4% del capitale ricevuto. Io ho comprato 100 e rivendo a 98, ho perso il 2% del capitale. L'acquirente riceverà l'interesse del 4% di 100 ma su un capitale investito di 98.
Lo spread quindi si applica solo al mercato secondario. Lo spread è un indicatore del rischio del paese. Maggiore rendimento = maggiore rischio. Lo spread non influenza minimamente i tassi di interesse che lo stato paga per le le obbligazioni già emesse. Ma solo le prossime in maniera indiretta. Alla prossima asta lo stato dovrà aumentare i tassi di interesse per poter invogliare gli investitori a correre il rischio su di se.

domenica 4 dicembre 2011

Tagliare gli stipendi pubblici

di Gionata Pacor

Ho calcolato che se si riducesse del 50% la parte che eccede i 50.000 euro degli stipendi pubblici (ad es. chi guadagna 60.000 prenderebbe 55.000), lo Stato risparmierebbe 3.25 miliardi di euro l'anno. Sarebbero toccati quasi 260.000 dipendenti pubblici (solo quelli con stipendi sopra i 50.000 euro, appunto).

lunedì 28 novembre 2011

Successo per la manifestazione in piazza San Babila


Un grazie a tutti per l'ottima riuscita dell'evento del 26 novembre a piazza San Babila a Milano. Al di là dei numeri in piazza, siamo riusciti ad ottenere un servizio televisivo su La7, una fotogallery su Repubblica Milano, un articolo su Libero, l'intervista di Giacomo Zucco su La Stampa e brevi trafiletti sulle versioni online di Il Giornale e La Padania e poi vari articoli su Blog e giornali online. Credo che per un movimento nato da poco più di un anno e senza grandi appoggi alle spalle sia un grande risultato. Citiamo en passant il contributo del Piemonte con l'articolo su Lo Spiffero e L'Elzevirista e una corposa delegazione in piazza San Babila.
Ricordo a tutti quanti il  nostro profilo su Twitter:
Vito e Giulia

giovedì 24 novembre 2011

Manifestazione 26 novembre Milano Piazza San Babila

Per chi volesse partecipare alla manifestazione antitasse di Milano ci possiamo incontrare alla stazione di Porta Nuova a Torino sabato 26 alle 11.30. Alcune indicazioni:
Partenza da Torino, Ora 11.30.
Punto di incontro Stazione di Porta Nuova, binario del treno regionale delle 11.50.
Partenza da Torino alle 11.50
Arrivo alla Stazione Centrale alle 13.45
Prendere metropolitana linea Gialla in direzione di San Donato e scendere alla fermata Duomo
poi prendere linea Rossa in direzione Sesto 1 maggio e scendere a San Babila.

Punto di incontro per tutti i piemontesi che arrivano in Piazza San Babila
fontana di bronzo a forma di piramide ottogonale

mercoledì 23 novembre 2011

23 novembre1986, la prima marcia di liberazione fiscale

di Vito Foschi

Il 23 novembre del 1986, ben 25 anni fa, a Torino, si tenne una marcia contro il fisco che raccolse circa 35000 persone. Dell’evento furono promotori un gruppo di venti autodefinitosi irriducibili testardi che diedero vita al Movimento di liberazione fiscale fra i quali Sergio Gaddi editore del periodico Controstampa, Franco Miroglio e Natale Molari presidente del Cidas. Si aggiunsero all’iniziativa tre professori Sergio Ricossa, Antonio Martino e Gianni Morongiu a dare una sorta di patrocinio intellettuale. Allora come oggi a parlare di fisco si finiva di essere accusati di essere degli evasori fiscali o dalla loro parte, come se un evasore avesse la necessità di chiedere un fisco più giusto. È chi paga le tasse che sopporta il peso di un fisco esoso e vessatorio, non certo chi non le paga per propria furbizia o per compiacenza altrui.
La manifestazione si svolse nel massimo ordine ed ebbe un successo clamoroso con articoli sui principali quotidiani e una partecipazione straordinaria fatta da quelle persone abituate a lavorare e non a scendere in piazza a reclamare. Gente non pagata da partiti o sindacati, ma che di motu proprio, esacerbati ae a Torino guidati Daa marcia contro l'da uno stato vessatorio ed ostile, si era mossa per manifestare la propria contrarietà all’esproprio del proprio lavoro da parte dello Stato. Dopo aver ascoltato i tre professori, i manifestanti marciarono per le vie del centro fermandosi a Palazzo Carignano, sede del primo parlamento italiano, ove depositarono fac-simili di modelli “101” e “740”, le vecchie dichiarazione dei redditi. Ci fu anche la partecipazione di una piccola pattuglia di autonomisti guidati da Roberto Gremmo. Si era agli albori di quei movimenti che negli anni novanta portarono all’esplodere del fenomeno leghista. Nei giorni seguenti a quell’evento, a testimonianza del successo dell’iniziativa, furono pubblicate su Panorama le dichiarazione dei redditi di nove dei venti irriducibili testardi. Il sospetto che si trattasse di una ritorsione fu più che legittimo.
Sono passati 25 anni, il muro di Berlino è crollato, ma i problemi dell’Italia sono rimasti gli stessi: la pressione fiscale è ancora più elevata, i conti dello stato allo sbando, i risparmi tassati, la circolazione del contante ridotta, i servizi pubblici sempre più inefficienti, Equitalia che si comporta come lo sceriffo di Nottingham. Il fisco continua ad essere una vorace macchina succhiaricchezze e lo Stato un’efficientissima macchina di sperperi e ruberie. Il cittadino è ormai schiavo dello Stato e deve pagare anche per gli errori dei decisori politici. C’è un nuovo governo a Palazzo Chigi, che è stato messo lì per varare misure di lacrime e sangue, come se il debito pubblico non potesse essere ripianato da una forte riduzione delle spese e da un’accorta depatrimonializzazione dello Stato. La situazione è peggiore del 1986 e con la prospettiva di una patrimoniale alle porte.
Il Tea Party Italia aveva già deciso nei mesi scorsi di organizzare una manifestazione nazionale contro l’oppressione fiscale che si ricollega idealmente alla marcia che si tenne a Torino. Un manifestazione decisa quando c’era un governo di centrodestra e che ora si svolgerà con un cosiddetto governo tecnico, ma la sostanza non cambia. Una costante dei governi di centrodestra e di centrosinistra che si sono alternati negli ultimi vent’anni è di non aver posto mano a nessuna riforma importante.
La manifestazione contro la voracità fiscale si terrà a Milano, capitale economica d’Italia e facilmente raggiungibile, il prossimo 26 novembre in piazza San Babila nel pomeriggio dalle 14.30 in poi. Saranno presente l’on. Antonio Martino, a rappresentare la continuità della lotta contro la rapacità dello stato, il prof. Carlo Lottieri, Adriano Teso, Alessando De Nicola, l’ex-ministro Giancarlo Pagliarini, Carlo Stagnaro, Marco Respinti e molti altri.
Curiosamente, ma non tanto, il motto del Tea Party Italia, “meno tasse, più libertà”, ricalca il cartello di una delegazione di metalmeccanici autonomi Failm-Cisal, partecipante alla marcia di 25 anni fa: “meno fisco = più libertà”.
Da Torino si muoverà un folto gruppo di persone, che al contrario di altre manifestazioni, si autotasserà per esprimere la propria voglia di libertà. Ci saranno dipendenti, studenti, partite IVA, precari, casalinghe uniti dalla voglia di scrollarsi di dosso il peso insopprimibile di uno Stato sempre più rapace e vessatorio. Chi volesse aggiungersi al gruppo di Torino può inviare una mail al seguente indirizzo: teapartypiemonte@gmail.com o cercare Tea Party Piemonte su Google, Facebook o Twitter.



domenica 20 novembre 2011

L'epopea libertaria di Banana Joe

di Vito Foschi

Il film Banana Joe fa parte di uno dei tanti filoni della commedia italiana indirizzato ad un pubblico di bambini e famiglie, cosa sempre positiva. La trama è semplice, piena di buoni sentimenti, debitrice del mito del buon selvaggio, reinterpretato per la bisogna e ricucito sul simpatico Bud Spencer, che è anche l’autore del soggetto. In breve, il classico film per famiglie che nella semplicità e nell’economia di mezzi serve a far passare allegramente un po’ di tempo. Sembrerebbe, quindi, uno di quei film che non hanno nulla dire, ma in realtà, ad un esame poco più attento, è in grado di insegnare molto, in particolare sul rapporto fra individuo e società e di quello fra individuo e Stato.
Il protagonista è Banana Joe che vive in una foresta commerciando banane. L’uomo è analfabeta, fatto importante, ma in grado di provvedere a sé e di aiutare il prossimo, dato che provvede al sostentamento di alcuni bambini. Un individuo perfettamente integrato nella società in cui vive che oltre a lavorare per sé dedica parte delle proprie risorse alla comunità da cui è ricambiato dall’affetto. Nel villaggio in cui vive, lo Stato non esiste e gli abitanti sono lasciati a loro stessi. Lo stesso Banana Joe non possiede documenti che testimoniano la sua nascita ed il suo piccolo commercio è ovviamente fatto senza licenza statale.
Fermiamoci ad esaminare questa situazione. La prima cosa che possiamo notare è che la società preesiste allo Stato e semmai è lo Stato che in qualche modo discende dalla società. Gli uomini nascono, crescono, amano, lavorano, commerciano, si organizzano in comunità anche senza che esista uno Stato qualsiasi che fornisca un qualche bene pubblico. Banana Joe anche senza documenti esiste e vive. E la sua mole è quasi simbolicamente l’affermazione della voglia di esistere. Certo il film è cucito sul corpulento personaggio di Bud Spencer, ma non è semplicemente casuale. Quando più tardi il buon Banana Joe si scontrerà con l'impiegato dell’anagrafe come si potrà negarne l’esistenza?
Il villaggio, nel cuore della foresta, vive e cresce nella mancanza dello Stato e i cosiddetti beni pubblici che dovrebbero essere forniti dallo Stato, sono forniti dal privato, ovvero nel film, da Banana Joe che con la sua barca trasporta gratuitamente beni per la comunità. È indubitato che questa parte del film è tributaria del mito del buon selvaggio creato da Cristoforo Colombo, però rileva inconsciamente che la società preesiste allo Stato e che può esistere una società senza Stato.
Questa è la parte iniziale del film in cui ci viene presentato il protagonista per poi passare alla parte in cui sorgono le sfide che l’eroe deve affrontare. E come si presentano i problemi per il nostro eroe? Con l’appalesarsi dello Stato, of course! Dopo anni passati a commerciare banane gli viene chiesto di avere la licenza di commercio, oggetto misterioso per l’analfabeta Banana Joe. Il commercio è semplice: vendere le banane in cambio di beni per sé e per il villaggio. Cosa c’è da capire? Cosa è ‘sta licenza? Vi rendete conto di come la nostra mente sia malata di statalismo? Per noi è naturale chiedere licenze, concessioni, sottostare a tutti una serie di cervellotiche assurdità burocratiche, ma che cavolo c’entra tutto questo con il vendere banane? O con qualsiasi attività economica? Le cose si producono e si vendono, tutto il resto semplicemente è un sovrappiù. Quindi la prima comparsa dello Stato nel film, è per frapporre ostacoli al libero commercio di Banana Joe e la conseguente crisi del villaggio dato che il commerciante garantisce tutta una serie di servizi alla comunità.
All’eroe bisogna imporre un nemico ed ecco comparire un gangster che vuole impiantare una coltivazione di banane nell’idilliaco villaggio, con annessa casa da gioco in cui riprendersi i soldi degli operai della piantagione. Anche qui ritorna il mito del buon selvaggio, che vive nella semplicità e nell’assenza del vizio rappresentato nel film dalla casa da gioco e con la civiltà vista come distruttrice dell’idillio. In realtà non è proprio così e lo vedremo in seguito.
Intanto voi pensate che il gangster si presenti con la violenza per impiantare la sua piantagione e costruire la sua casa da gioco? Ma no! Lui le licenze le possiede e pretende che lo Stato gli tolga dai piedi Banana Joe che si frappone ai suoi piani. Ancora una casualità? Il delinquente che si fa forte dello Stato? O semplicemente una convergenza di interessi fra criminali, il predone singolo che si allea con il grande predatore statale contro la singola persona che soccombe? Se ci pensate, quante imprese italiane vivono grazie agli appoggi statali più o meno palesi a danno delle persone?
Fortunatamente il film è a buon fine e il nostro eroe raccoglie la sfida per ottenere la sconosciuta licenza. Nel frattempo, Banana Joe, conosce un truffatore che cerca di imbrogliarlo. Personaggio indubbiamente comico questo truffatore, ma che alla fine sarà la salvezza di Joe. Il truffatore rappresenta una sorta di Robin Hood, con la sua abilità nell’inganno, caratteristica che gli permette di sopravvivere ai soprusi dello Stato. Un’indicazione per il cittadino italiano?
Vediamo qualche altro dettaglio della trama. Il nostro eroe cerca di ottenere la licenza, ma ciò è impossibile perché lui non esiste all’anagrafe. Bellissima, ma realistica, la scena del rimpallo fra uno sportello ed un altro. Gli viene consigliato di fare il servizio militare per ottenere l’iscrizione all’anagrafe: gli viene imposto di lavorare gratis per lo Stato per un anno per dimostrare che esiste! Ma ci rendiamo conto dell’assurdità? Come si fa a dire che il corpulento commerciante non esiste? Fuggito dalla caserma, perché giustamente non voleva stare lì mentre aveva da attendere ai suoi commerci, si presenta all’ufficio anagrafe. L’impiegato gli chiede il documento attestante l’espletamento del servizio militare, al che il povero Joe non può che mostrare l’evidenza della divisa che indossa. Perso il controllo per l’ennesimo intoppo, il nostro eroe raggiunge l’ufficio del ministro, e impossesatosi del timbro si mette a timbrare tutti i documenti che gli irritatissimi cittadini gli sottopongono, giubilandolo come eroe: un tripudio di libertà. La vita di tante persone bloccate da un timbro, o meglio dalla volontà di sopruso di un politico, che non ha avuto nessun problema, dietro lauta tangente, a rilasciare tutte le licenze del caso al gangster. Insomma, lo Stato si pone come tappo per le attività delle persone e chiede una tangente per toglierlo. Banana Joe, ovviamente finisce in carcere dove rincontra il truffatore che nel frattempo con le sue innumerevoli amicizie è riuscito a fare ottenere la licenza al commerciante. Ancora un riferimento all’Italia, dove per superare gli inghippi burocratici è necessario rivolgersi all’amico giusto?
Usciti dal carcere, i due raggiungono il villaggio nella foresta dove ormai è stata costruita la casa da gioco. Fedele al suo personaggio, Joe la demolisce prendendo a pugni tutti i gangster. A demolizione avvenuta si presenta la polizia, ma stavolta inviata dal presidente del paese alla ricerca del truffatore per ringraziarlo. Il presidente è convinto che la moglie finalmente partorirà un figlio maschio grazie alle misteriose pillole procuratogli dal furbo imbroglione. La polizia, non più guidata da funzionari corrotti, riconosce il gangster come un pluriricercato e lo arresta. Si può dire che l’unica figura statale positiva è il presidente credulone, che come un vecchio sovrano concede il perdono al simpatico truffatore. Sara un caso? O forse come ci insegna lo studioso Hoppe le monarchie non erano poi tanto male? Dopotutto se in Italia il fascismo non è stato totalitario, fu grazie alla presenza della Monarchia e della Chiesa. Un’ultima nota, il personaggio femminile. Come ogni eroe che si rispetti anche Banana Joe deve avere la sua bella. Sempre per rimanere nel filone dei buoni sentimenti, la bella è la pupa del gangster, che Banana Joe in qualche modo redime. Il trionfo dei buoni sentimenti, ma a noi piace così! Interessante, il fatto, che la bella rimane nel villaggio per diventare la maestra dei bambini protetti da Joe e ovviamente di Joe stesso. Qui c’è una grossa differenza da evidenziare: la civiltà portata dallo Stato è quella del vizio di cui è promotore il gangster, mentre il privato sotto le belle forme della maestra porta un po’ di cultura senza imporre niente. Da una parta prepotenza, corruzione e vizio, dall’altra una scuola all’aperto per tutti. Che bella differenza! Questa ci riporta alla mente la colonizzazione, quando a grandi linee, il privato sottoforma di Chiesa agiva in modo più o meno corretto, mentre quando agiva lo Stato iniziava lo sfruttamento.

pubblicato in origine su Ultima Thule

martedì 15 novembre 2011

Il censimento e il Natale

di Vito Foschi

In questi giorni sono arrivati a casa i moduli da compilare per il censimento e gli italiani per l’ennesima volta donano del tempo allo Stato. Nei vecchi libri scolastici dove si parlava male del Medioevo veniva preso come esempio di oppressione le corvée, ovvero i servizi gratuiti che il servo della gleba doveva al signore. Sono passati i secoli, non siamo in un regime feudale, ci raccontano  che siamo liberi, ma continuano a svolgere compiti gratuiti per una fantomatica entità chiamata Stato che dovrebbe fare il nostro bene. Almeno nel Medioevo il signore feudale aveva nome e cognome, ma ora con chi ce la prendiamo? Con i funzionari ISTAT? Con 4 milioni di dipendenti pubblici? Con l’onorevole? È un po’ difficile poter identificare un singolo colpevole. Cosa ben peggiore è che siamo talmente immersi in una mentalità di tipo sovietico da non renderci conto delle corvée che subiamo e quando qualcuno ce lo fa notare facciamo spallucce e pensiamo che sia giusto regalare tempo allo Stato. Probabilmente alcuni hanno tempo da perdere per cui lo possono regalare senza pensiero, ma per la gran parte delle persone il tempo è una risorsa preziosa e scarsa.
L’Italia dovrebbe avere la fortuna di essere un paese cattolico, almeno sulla carta, perché come  evidenzia lo scrittore Langone è ormai diventata un paese protestante in cui la religione è ridotta a becero moralismo. Così abbiamo sedicenti cattolici che idolatrano lo Stato o la Natura, dimentichi del vero Dio, delle parole del Vangelo e pronti a scagliare la prima pietra.
Come cattolici la prima volta che sentiamo la parola censimento è al catechismo e ci viene regalata una immagine piuttosto cruda del potere politico. Strappare una madre in procinto di partorire dalla sua casa, costringerla ad un viaggio faticoso e infine a un partorire in una stalla non è proprio una bella presentazione per il censimento. Chiaramente se pensiamo che il Vangelo sia una bella favoletta possiamo non occuparcene, ma dato che l’Italia si considera ancora un paese cattolico, dovremmo prestargli fede e anzi da credenti essere sicuri che sia ispirato da Dio. E se così è, la stessa scelta delle parole o la sequenza dei fatti è significativa: se il Vangelo inizia con la violenza disumana da parte dello Stato un motivo ci sarà. È piuttosto evidente che il censimento viene visto come violenza assurda da parte dello Stato che non si arresta neanche di fronte ad una donna incinta. Quello che caratterizza il potere politico è la sua disumanità nel pretendere che tutti gli uomini siano una sorta di soldatini di legno da muovere a piacere e intercambiabili tra loro. Così, deciso le modalità del censimento, non si ferma di fronte all’assurdità di far intraprendere un viaggio ad una donna incinta. La legge è legge. E sempre il singolo uomo che si piega alla volontà dello Stato. Il cristianesimo al contrario esalta ogni singolo uomo nella sua diversità.
Non si capisce l’acquiescenza di gruppi di cattolici nei confronti dei continui abusi da parte dello stato. Al di là del censimento, in sé un atto minimale, ma che sommandosi ad una moltitudine di altri, ci porta ad essere sotto il controllo totale dello stato, quello che preoccupa, è la totale acquiescenza in ciò. Anzi, tanti benpensanti cattolici chiedono più controlli gridando all’untore se un cittadino non rispetta le regole che siano fiscali o più semplicemente burocratiche, totalmente dimentichi dell’insegnamento del Vangelo. Per questi cattolici sembra che Gesù non sia venuto al mondo per gli uomini, ma per difendere gli Stati. Bisognerebbe ricordare cosa disse Gesù sulla regola del sabato. Presso gli ebrei il sabato era il giorno dedicato a Dio e non si poteva svolgere nessuna attività lavorativa. In un passo dei Vangeli si racconta di come i discepoli in un giorno di sabato si misero a raccogliere alcune spighe di grano per fame attirandosi l’ira dei farisei che urlarono alla regola violata. Gesù risponde citando l’analogo episodio di Davide che addirittura aveva violato le offerte del tempio per sfamare i suoi uomini, ma soprattutto dice:  “Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l’uomo per il sabato!”(Mc 2,27). Parafrasando il Vangelo: è la legge fatta per gli uomini o gli uomini per la legge? Bisognerebbe ricordarlo ai tanti adoratori della costituzione, novello vitello d’oro.
Un altro aspetto importante da chiarire della dottrina cristiana è che non affatto vero che il buon cristiano debba sottomettersi a qualunque legge. Il passo degli Atti degli Apostoli (5,9) è piuttosto esplicito: «Bisogna obbedire a Dio prima che agli uomini». I primi cristiani lo misero in pratica  rifiutando di prestare servizio militare per l’Impero Romano andando incontro al martirio. Nel Medioevo questo principio si completò nel cosiddetto diritto di resistenza ovvero nel diritto della persona a resistere al potere illegittimo. Questo aiuta anche a capire anche qual’era il potere di scomunica del Papa. In sé può sembrare un atto incapace di produrre effetti, ma in realtà autorizzava chiunque a compiere qualsiasi atto contro lo scomunicato, sapendo di non compiere peccato. San Tommaso afferma: «Chi uccide il tiranno è lodato e merita un premio». Il diritto di resistenza, come evidente, è cosa ben diversa da una generica sottomissione del buon cristiano alle leggi degli uomini.
Concludendo, con il censimento continuiamo  a svolgere le nostre corvée per lo Stato, a dare informazioni per essere controllati sempre più minuziosamente e i cattolici cosiddetti “adulti” ad idolatrare la Legge dimentichi di Dio e degli uomini.

domenica 30 ottobre 2011

All’ombra della crisi piccoli liberali crescono

Riportiamo l'articolo de Lo Spiffero in cui si parla del Tea Party Itali

Pubblicato Sabato 01 Ottobre 2011, ore 8,30 su Lo Spiffero

Sono i nipotini di Einaudi e Hayek e hanno in Ricossa il loro indiscusso maestro. Sotto la Mole un gruppo di giovani e brillanti studiosi professa (rinverdendola) la rivoluzione liberale: Stato minimo, privatizzazioni, meno tasse, meritocrazia

Colti e disillusi, brillanti ma per il momento in disparte, diffidenti verso ogni forma organizzata di politica politicante. Nei mesi della crisi globale, Torino riscopre grazie ad alcuni giovanissimi interpreti la propria vocazione liberale. Sono i pronipoti di Luigi Einaudi, ma il patrimonio genetico spazia da Thomas Jefferson a Milton Friedman, da Friedrich von Hayek ai concittadini Sergio Ricossa, Bruno Leoni e Enrico Colombatto. La loro bibbia è “La Rivolta di Atlante” di Ayn Rand e come John Galt rivendicano il diritto - e persino il dovere - di vivere perseguendo i propri interessi secondo quell’etica dell’«egoismo razionale» che assegna all’individuo fine e valore in sé. Si riuniscono in gruppi di discussione informali e poco strutturati, come il Tea Party - sulla scorta del movimento nato e affermatosi negli Stati Uniti – oppure Ora Liberale. Il motto è il medesimo per tutti: «Meno Stato, meno tasse, più libertà».

Si oppongono alla presenza sempre più invasiva dello Stato nella vita di ogni singolo individuo, lo "Stato massimo" un Moloch, il Leviatano hobbesiano che determina le regole e poi pretende di giocare la partita, spesso anche senza avversari, come nel caso dei tanti regimi monopolistici ancora esistenti, dai servizi pubblici alle sigarette. «Quando lo Stato diventa imprenditore esercita una concorrenza sleale nei confronti di chi imprenditore lo è davvero e rischia il proprio capitale, non quello della collettività» spiega Riccardo De Caria (nella foto a sinistra), 27 anni, alle spalle una laurea in giurisprudenza, un dottorato e un master alla London Scholl, ricercatore all'Università subalpina.

Affamare la bestia in modo da dare libero sfogo agli ancestrali animal spirits: meno Stato, più mercato, concorrenza, meritocrazia. «Il pubblico ha usurpato la comunità di ogni prerogativa: uccidendo le vecchie società di mutuo soccorso e tutti quei modelli associazionistici che si erano affermati tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900. A fronte di una tassazione sproporzionata offre dei servizi limitati e spesso inefficienti». A parlare è Domenico Monea, studente di medicina appena 22enne. E se gli si chiede quale possa essere la sua idea di welfare risponde: «Lo Stato oggi è la versione secolarizzata della religione. La gente si aspetta che si sostituisca a Dio e fornisca una risposta a ogni loro esigenza».

Sono in gran parte studenti o professionisti a inizio carriera, hanno un’età che varia tra i 20 e i 30 anni e, a differenza dei loro genitori (politici), non provano alcuna soggezione nei confronti delle ideologie egemoni che, seppur sbrindellate, vanno per la maggiore tra i coetanei. Comunicano attraverso internet, molti di loro hanno già vissuto esperienze lavorative o formative all’estero, come Giovanni Boggero, tra i fondatori, con De Caria, di Ora Liberale e collaboratore del giornale on line Linkiesta, attualmente a Berlino per un dottorato. Hanno vissuto esperienze più o meno travagliate nelle giovanili di partito - dall’Italia dei Valori al Pdl - tutti, però, ne sono usciti, persuasi del fatto che «oggi nessuno è in grado di rappresentare queste istanze» spiega uno dei coordinatori del Tea Party torinese, Vito Foschi. Concordano nel definire l’ultima Finanziaria, lontanissima da ciò che loro professano («abolizione degli ordini professionali, liberalizzazione dei servizi pubblici, dismissione da parte dello Stato e degli enti locali di società e imprese nelle quali detengono delle partecipazioni, sburocratizzazione della pubblica amministrazione, taglio della spesa pubblica, abbattimento delle tasse e misure per favorire la libera imprenditoria») e non escludono un default imminente per l’Italia: «Il che non è detto sia una cattiva notizia – riflette Niccolò Viviani (foto in alto a destra), 22 anni, futuro ingegnere gestionale, considerato un enfant prodige –. Anzi, potrebbe essere l’unica via per rifondare la nostra nazione su presupposti nuovi».

venerdì 28 ottobre 2011

I sindacati e l’isola che non c’è

di Vito Foschi

Fra i tanti punti di discussione dell’ultima finanziaria, ci sono state forti critiche da parte del mondo sindacale sull’articolo 8, che secondo alcuni è un cavallo di troia per introdurre la libertà di licenziamento. Si potrebbero fare delle considerazioni di principio sulla libertà contrattuale che viene ridotta da una legislazione che vieta il licenziamento; oppure, dato il continuo riferirsi alla costituzione ricordare il principio di uguaglianza che in qualche modo contrasta con il fatto che un comune cittadino può firmare il contratto che vuole mentre una volta acquisita la qualifica di imprenditore non può più farlo. Così, tanti non vedrebbero nulla di strano a mandar via, per esempio, l’idraulico che facesse male un lavoro, ma trovano “strano” licenziare un dipendente. Queste considerazioni per quanto interessanti cedono il posto ad altre ben più fondamentali.
Il licenziamento prevede l’assunzione, ma il problema odierno non è il precariato? Ovvero la negazione dell’assunzione? Se viene a mancare questa, che senso ha, preoccuparsi del licenziamento? Mettetevi nei panni di un precario a cui vengano negati tutti i diritti posseduti da un dipendente vecchio stampo, ferie pagate, malattia, permessi, cassa integrazione, mobilità e con in più la possibilità di essere mandato via seduta stante senza nessuna forma di tutela. Potete ben capire che la battaglia per l’articolo 8 sembra veramente fuori dal mondo. Qualsiasi precario sarebbe felicissimo di accettare la libertà di licenziamento in cambio di un contratto regolare perché significherebbe passare da una condizione pessima ad una più che buona. Attualmente fra stage, co.co.pro., partite IVA monocommittente, una persona può essere spedita a casa senza preavviso e senza alcuna giustificazione. Queste tensioni da parte sindacale ricordano le analoghe relative al nuovo contratto della Fiat: da una parte i precari che avrebbero fatte salti mortali per sottoscrivere il nuovo contratto e dall’altra, i sindacati che gridavano allo scandalo per dei ritocchi su pause e turni.
Gli iscritti del sindacato sono pensionati, dipendenti pubblici e alcune fasce di dipendenti privati e l’azione sindacale si trasforma in semplice azione di lobbying per queste categorie. I giovani? Non li tutela nessuno. Come per le pensioni si creano due gruppi di lavoratori, quelli relativamente  giovani che non godono di nessun diritto e i meno giovani iperprotetti, gli intoccabili. Per assurdo, nella stessa azienda a fare lo stesso lavoro, colleghi di scrivania hanno contratti e garanzie totalmente diverse e non certo per differenti capacità o merito, ma solo per una questione anagrafica. Si capisce bene l’accordo sindacati-Confindustria per rendere inefficace l’art 8: tanto nulla cambia. In poche parole, i privilegi e gli sprechi del passato li si sta facendo pagare ai giovani, con i relativamente vecchi che in qualche modo vengono ancora tutelati. Un sistema così squilibrato chiaramente non può durare a lungo.
Questo discutere sul nulla sembra solo un voler distogliere l’attenzione dai problemi veri. Al di là delle differenze ideologiche sarebbe utile tornare a parlare della realtà e non discutere di un universo parallelo che esiste e resiste solo nelle menti legate ad un passato ormai lontano.

Pubblicato anche su Lo Spiffero del 10 ottobre 2011

mercoledì 19 ottobre 2011

"La Sfida per le Primarie (Dibattito del 18 ottobre 2011): le Risposte di Ron Paul"




Breve traduzione delle risposte:

  • Lei ha definito “pericoloso” il piano Cain. Perché?
  • È un piano pericoloso, accresce gli introiti fiscali e rappresenta un’ipotesi di imposta regressiva. Ma il punto principale è: “con cosa sostituireste il minor gettito derivante dalla soppressione dell’imposta sul reddito?” NULLA! Questa è la mia risposta. Vorrei far rilevare che la spesa pubblica è già, di per sé, una “tassa”; il governo può spendere attraverso i proventi dell’imposizione fiscale, il prestito o la creazione di nuova moneta (e quindi i prezzi salgono, ciò che succede oggi). A pagare sono sempre i cittadini. Questo è il motivo per il quale propongo un taglio iniziale da 1 trilione di dollari! La spesa è il problema.

giovedì 13 ottobre 2011

Ritornare al capitalismo per evitare le crisi

Si è svolta a Torino, presso la libreria Dante Alighieri, piazza Carlo Felice, la presentazione dell'ultima fatica di Pascal Salin, economista francese, esponente della scuola austriaca e specialista in scienze delle finanze: "Ritornare al capitalismo per evitare le crisi".
Presenti anche Vincenzino Caramelli, docente di scienza delle finanze all'università di torino, facoltà di giurisprudenza e portavoce del CIDAS (grazie al quale è stato possibile realizzare l'evento) e Carlo Lottieri, filosofo del diritto presso l'università di Siena.

Intervenendo per primo, Salin ha subito voluto chiarire come l'attuale crisi del debito sovrano non sia affatto una conseguenza dell'immoralità del sistema capitalistico, ma il naturale approdo di uno statalismo sempre più forte ed oramai onnipresente. Nello specifico, l'idea che le crisi economiche possano essere risolte attraverso stimoli fittizi basati sulla creazione di moneta ex novo da parte delle autorità monetarie, manipolazioni del tasso di interesse (tassi eccessivamente bassi hanno provocato espansioni insostenibili del credito e malinvestimenti in molti settori economici) che, secondo Salin, altro non è che il "prezzo del tempo" ed intrusioni ossessive della regolazione burocratica nell'attività economica sono alla base degli odierni problemi finanziari e monetari.

L'autore ha poi puntato il dito contro l'atteggiamento salvifico delle banche centrali (Fed in particolare) che eliminano sostanzialmente il rischio di fallimento: ciò ovviamente, porta a fenomeni di "moral hazard" (azzardo morale) che sono all'origine dell'odiato fenomeno meglio conosciuto come "privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite".

Ulteriore enfasi è stata posta da Salin su un fattore spesso ignorato dalla letteratura economica contemporanea: la dissociazione tra governance (scelte aziendali) e proprietà sostanziale. Portando l'esempio degli istituti bancari del XIX e XVIII secolo, l'autore ha sottolineato la differenza sostanziale che intercorre tra questi ultimi e quelli oderni: i proprietari dei primi erano anche coloro che si occupavano delle scelte manageriali ed imprenditoriali, mentre negli istituti bancari contemporanei la proprietà, detenuta da piccoli azionisti, è spesso dissociata dal management (che è costituito da salariati) e questo può provocare fenomeni di rischio eccessivo nelle scelte adottate dai manager, che non hanno responsabilità proprietaria. In generale, la scomparsa della responsabilità e della moralità individuale è una coseguenza del continuo intervento statale nell'economia.

In sostanza non ci troviamo più di fronte ad un sistema capitalistico (da intendersi come "sistema di legittimi diritti di proprietà"), ma ad un sistema pesantemente distorto dall'intervento statale moderno che, attraverso la fiscalità, spesso punisce l'accumulo di capitale, distorcendo la struttura produttiva.

Per Salin, gli Stati e le loro politiche keynesiane sono i responsabili principali di questa crisi, essi non possono farsi promotori di stabilità finanziaria e monetaria.

La presentazione ha poi visto l'intervento di Carlo Lottieri, che si è soffermato sul concetto di "lotta di classe" nelle socialdemocrazie moderne: essa non è più uno scontro marxiano, tra detentori dei mezzi di produzione e non, ma tra produttori laboriosi e parassiti burocratici, che tendono a vivere dei frutti dei primi. Questo sistema ("crony capitalism") è la causa della crisi morale in cui siamo immersi ed è necessario reagire ad essa sviluppando una teoria della giustizia liberale coerente, che si sganci dalle logiche coercitive statali e dia preminenza alla volontarietà dei rapporti sociali, attraverso un superamento del concetto stesso di "sovranità".

Salin ha quindi chiuso la presentazione con una nota sul futuro: sconfiggere l'interventismo, nelle socialdemocrazie moderne, non è facile. Tuttavia è necessario che gli errori intellettuali, che provocano catastrofi reali, siano evidenziati e resi pubblici, col fine di tornare, seguendo la direttrice impartita dai maestri della Scuola Austriaca (Mises ed Hayek in particolare), all'unico sistema possibile, moralmente ineccepible e del tutto pacifico: il capitalismo.

Luigi

domenica 9 ottobre 2011

La bufala del sommerso

di Raffaele Terlizzi

Nel seguente articolo è spiegato molto bene il meccanismo del sommerso nel pil.

http://www.gragusa.org/blog/2011/09/pil-ed-economia-sommersa/

il pil totale viene calcolato inserendo all'interno anche il valore del sommerso che viene stimato dall' istat .Nel 2008 viene stimato in circa il 17% .
Cosa vuol dire questo? che se si accertasse che il sommerso è inferiore a questo valore si avrebbe una riduzione del pil con conseguente aggravio del deficit. Viceversa l'aumento di questo valore farebbe aumentare il pil con conseguente diminuzione del deficit.
Il valore del sommerso è stimato e quindi per definizione variabile. Non si sa esattamente chi evade e anche la distinzione fra economia sommersa  ed economia  criminale è molto labile e quindi ci possono essere dei travasi fra l'una e l'altra difficilmente calcolabili. Il camorrista che prende il pizzo evade l'IVA come il commerciante che non da lo scontrino. Nel primo caso è economia criminale , nel secondo è economia sommersa. Veniamo al punto: il variare del calcolo del sommerso nel pil varia di molto il calcolo del deficit senza che vi siano interventi di tipo economico sul bilancio dello stato. Questo spiega il perchè la classe politica tutta, maggioranza ed opposizione, picchia così forte sull'evasione. Non perchè colti da spirito etico ma semplicemente per spingere quel valore verso l'alto. Se l'istat certificasse un 18% magicamente il valore del deficit si abbasserebbe dell'1%. Tutti infatti si affrettano ad ingigantire il valore del sommerso perchè solo un incremento certificato può portare ad un incremento del pil. A fronte di un pil con un 17% aleatorio, lo stato spende un 17% reale.
L'economia sommersa viene inserita in tutti i pil. Guarda caso la grecia è quella che ha l'evasione più alta di tutti. Non ha importanza che sia vera o falsa, l'importante è che rientri nel pil col valore più alto possibile.

sabato 24 settembre 2011

Arenaways: la compagnia ferroviaria che non si arrende, intervista a Giuseppe Arena

Se per un imprenditore essere competitivo e fare concorrenza non è mai facile in nessun settore, è quando ci si confronta con lo Stato e i suoi monopoli più o meno protetti, che anche solo stare sul mercato comincia a farsi veramente arduo. Il recente passato del nostro paese pullula di molti esempi in tal senso, ma alla fine i risultati si possono restringere a sole tre categorie: le imprese che sono state costrette ad uscire dal mercato, quelle che sono prosperate grazie a lobby politiche che le hanno aiutate e quelle che hanno sempre cercato di farcela da sole e continuano a lottare nonostante non abbiano appoggi.

La prima categoria comprende casi come Europa 7, l’emittente privata che pur avendo vinto negli anni ’90 la gara per l’assegnazione delle frequenze televisive davanti a Rete4, non è mai riuscita - grazie a veti politici - a trasmettere su scala nazionale. Un altro caso poco conosciuto è quello di Aexis Telecom, società - di cui fui uno dei primi abbonati - altamente concorrenziale, con 18mila lire al mese a fine anni ’90 consentiva di fare tutte le chiamate urbane più internet, ma Telecom Italia non gradì l’iniziativa, e la pressione fu tale che la vicenda trovò pochissimo spazio sui media e si può giustamente rubricare nei misteri economici d’Italia.

Le aziende che ce l’hanno fatta perché scese a patti con le lobby politiche non le citerò perché si conoscono e sono ben attive, invece di fare concorrenza hanno scelto di diventare monopoliste loro stesse, con l’aiuto determinante dello Stato, “drogando” interi settori economici nazionali come TV, stampa, automotive, ecc.

Nella terza categoria si colloca Arenaways, una delle pochissime società se non l’unica a tentare di fare concorrenza alle carrozze, o meglio al carrozzone di Trenitalia; fondata nel 2006 da Giuseppe Arena che ha avuto l’idea di inserirsi nel processo di liberalizzazione delle rete ferroviaria italiana (RFI) dopo una più che ventennale carriera in diversi ambiti del trasporto ferroviario con progetti in diversi paesi europei e una chiara vocazione all’innovazione.

Nel 2009 la società ottiene tutti i certificati necessari e vuole partire con un interessante circuito ad anello che avrebbe toccato Torino, Novara, Milano Novara, Vercelli, Santhià, Alessandria, Asti e Pavia. Dopo le prime difficoltà burocratiche il progetto è stato limitato alla tratta Torino-Milano, ma anche in questo modo gli uffici del ministero dei trasporti hanno dato parere negativo non permettendo di effettuare le fermate intermedie, incidendo così pesantemente sulle possibilità di stare sul mercato dell’azienda che secondo il rapporto avrebbe “compromesso l’equilibrio economico del contratto di servizio di Trenitalia”. Termini tecnici per un ossimoro: si deve liberalizzare, ma non si deve fare concorrenza a Trenitalia dove non vuole!

Arenaways è ora in esercizio provvisorio e ha dovuto portare i libri in tribunale, ma Giuseppe Arena non si arrende, il 6 ottobre aspetta la sentenza del ricorso al TAR: “nel frattempo continuiamo ad andare avanti con i treni turistici Autozug che collegano Alessandria e Trieste con le grandi città tedesche e permettono di portare l’auto al seguito”. L’ottimismo e l’attivismo di Arena si scontrano però con forti resistenze a mantenere lo status quo, l’ultimo attacco alla concorrenza sulle rotaie è arrivato in finanziaria, dove è stata inserita una norma che obbligherà tutti gli operatori privati del settore ferroviario ad applicare ai propri dipendenti il contratto collettivo delle Ferrovie dello Stato. Un altro modo per bloccare il processo di liberalizzazione del servizio, che ha suscitato le proteste di Catricalà e del gruppo di imprese ferroviarie private sia merci che passeggeri.

Cosa chiederebbe Giuseppe Arena per poter davvero aprire il mercato ferroviario?innanzitutto gare regionali aperte, in modo da poter competere ad armi pari con il settore pubblico che ora sfrutta contratti di servizio con le regioni”; poi la cosa forse più interessante: “non fare niente!” meno interventi e regolamentazioni pubbliche ci sono e meglio si può lavorare, all’estero infatti le compagnie ferroviarie private sono ormai una realtà affermata come in Germania dopo sono oltre 300, in Austria sono una decina e molte esistono anche in Svizzera.
Una normativa da rivedere sarebbe l’art 59 della Legge 23 luglio 2009, che sostanzialmente consente all’URSF (Ufficio di regolazione dei servizi ferroviari) di limitare i vettori privati se osano turbare l’equilibrio economico di contratti di servizio esistenti con Trenitalia.

Le reazioni dei pendolari come sono state? Dovrebbero essere la categoria più interessata a migliorare il servizio. “Devo dire che mi hanno in parte deluso, non ho avuto il sostegno che mi aspettavo ne manifestazioni di solidarietà”, forse molti si sono arresi ad avere un servizio mediocre e si limitano a protestare con le regioni. Regioni, che come il Piemonte sembrano indifferenti o impotenti a cambiare la situazione, come l’assessore ai trasporti Barbara Bonino che nell’ultimo tavolo con Arenaways non si è neppure presentata, ed è stranamente toccato al presidente della provincia di Torino Antonio Saitta prendere le parti della compagnia privata.

Dopo aver analizzato tutte queste traversie, si può capire quanto veramente soli siano gli imprenditori che in Italia vogliano fare il loro mestiere senza chiedere aiuti di stato, o umiliarsi a fare il “giro delle sette chiese” cioè dei partiti e delle lobby politiche.

Rossano R.