Intervista a Carlo Lottieri
di Luciano Capone
Può sembrare assurdo pensare che lo Stato moderno sia una religione. Se leggete Credere nello Stato? – teologia politica e dissimulazione da Filippo il Bello a Wikileaks di Carlo Lottieri, vi ricrederete. Anzi, è probabile che diventiate apostati della “forma più sofisticata e potente di dominio dell’uomo sull’uomo”. Non a caso in copertina c’è l‘effige dell’incoronazione di Bokassa, massima manifestazione della signoria antropofaga dello Stato. Il filosofo libertario in maniera semplice ed efficace, pur trattando temi astratti e complessi, va alla ricerca della legittimazione dello Stato e prova a separare il destino del liberalismo da quello del potere istituzionalizzato e centralizzato.
Quindi, Professore, i termini “religione civile”, “Bibbia laica” (riferito alla Costituzione) o “patriottismo costituzionale” non sono un mero artificio retorico. Per lei davvero lo Stato si considera una religione?
Lo Stato è un’entità moderna ed europea che ha avuto bisogno di poggiare su fondamenta metafisiche. Gli apparati politici della modernità sono riusciti a usare il cristianesimo quale strumento di legittimazione e, in una seconda fase, se ne sono liberati per affermarsi essi stessi come divinità. In linea di massima si pensa che il linguaggio para-religioso, o in qualche caso anche esplicitamente sacrale, che è impiegato dagli uomini di Stato e da molti intellettuali schierati a difesa delle istituzioni moderne, rinvii a similitudini. Non credo, e non si tratta neppure di lapsus. Lo Stato non può accontentarsi di disporre dei nostri soldi e delle vite perché, se non dispone anche delle nostre anime, rischia di perdere tutto.
Già un autore come Carl Schmitt aveva parlato di “teologia politica”. Vuol dire forse che la secolarizzazione in realtà non è mai avvenuta? Dietro ogni concetto politico c’è sempre la prospettiva della fede?
Per Schmitt, e penso che avesse ragione, il processo moderno di secolarizzazione, non conduce verso un’età in cui nessuno non crede più a nulla. In realtà apre la strada a nuovi credo e, in particolare, al trionfo del Dio-Stato. La politica finisce per togliere spazio alle comunità religiose, alle tradizioni, alle famiglie e alle imprese, ma questo esito non sarebbe comprensibile se non cogliessimo come il Potere moderno realizzi una forma di mimesi del Dio cristiano: se Dio è eterno, lo Stato si vuole perpetuo, se Dio è creatore lo Stato si rappresenta quale sovrano.
Sono esistiti Stati che imponevano l’ateismo (nei paesi comunisti) o anche una forma di “religione dello Stato” (la Francia rivoluzionaria). Ma oggi in Occidente esiste la libertà religiosa, come fa a dire che lo Stato è una religione se dà libertà di culto?
Quella statuale è una “tolleranza dimezzata”. Lo Stato ci lascia di liberi di essere buddisti o cattolici, atei o ebrei ortodossi, musulmani o agnostici, ma su una cosa non transige: dobbiamo essere cittadini. Nel rapporto con lo Stato il cittadino-suddito (che è suddito perché non può sottrarsi alla propria condizione) non deve soltanto pagare le imposte e obbedire alle decisioni del ceto politico, ma soprattutto deve in qualche modo accettare i dogmi, i riti, le mistificazioni e le rappresentazioni sacre che lo Stato costruisce attorno a sé. Le cosiddette “celebrazioni” dei 150 anni dall’unità ne sono state una prova evidente.
Già dopo la Rivoluzione francese Tocqueville si era accorto che l’apparato statale e burocratico era diventato più imponente. La vittoria contro l’Assolutismo ha quindi posto le basi per una maggiore concentrazione del potere?
In larga misura è così. La nuova situazione aperta dalle logiche rivoluzionarie ha avuto alcune conseguenze: centralizzazione, spersonalizzazione, rappresentazione. Questi cambiamenti hanno permesso, nel corso dei decenni, che i nuovi governanti finissero per disporre in maniera ancor più significativa dei loro sudditi. Qui non si tratta evidentemente di rimpiangere l’ancien Régime, ma di sottolineare che, se gli antichi sovrani secenteschi potessero tornare in vita, sarebbero pieni di ammirazione di fronte al controllo minuzioso e tendenzialmente totalitario che gli Stati post-rivoluzionari sono riusciti a predisporre.
Ma se ora c’è lo Stato e prima c’era l‘Assolutismo, c’è mai stato un periodo storico in cui individui e libertà erano maggiormente garantiti?
La storia della libertà è una storia difficile da tracciare. Nel libro mi sforzo di mostrare come alcune libertà siano state meglio tutelate in taluni periodi e altre in altri. È però vero che l’ordine giuridico medievale, benché presti il fianco a molte e motivate critiche, avesse quanto meno il vantaggio di avere evitato ogni concentrazione del potere. La frammentazione istituzionale e la sovrapposizione dei livelli giuridici ha creato uno spazio di libertà che ha visto emergere il capitalismo e che ha aiutato enormemente gli europei a sviluppare scienza ed economia.
Il pensiero di tradizione comunista, che ha criticato lo Stato partendo da basi puramente economiche, si è poi a sua volta trasformato in una religione. È una tendenza del potere in generale quella di acquisire caratteri religiosi?
In qualche modo sì, perché ogni potere ha bisogno di legittimarsi e non esiste una forma di legittimazione più potente. Bisogna sempre tenere a mente quanto sia innaturale il fatto che alcuni uomini sottraggano sistematicamente risorse ad altri uomini, o il fatto che alcuni costringano altri a obbedire, a combattere, a credere in taluni principi. Per realizzare tutto questo la classe politica deve controllare la violenza, ma deve soprattutto penetrare nei cuori. Ecco perché è così frequente ritrovare elementi di “religiosità civile” nella retorica posta a protezione delle nostre istituzioni, che pure si dicono “laiche”.
Una obiezione al suo ragionamento: in questo momento, si pensi alla situazione attuale dell’Italia o della Grecia, gli Stati perdono potere a favore degli organismi internazionali senza nemmeno opporre troppa resistenza. Sta crollando la teologia che sorregge lo Stato?
La nostra situazione è paradossale. Di fatto lo Stato sta entrando in crisi, ma noi non riusciamo a concepire la vita sociale al di fuori delle sue logiche, con il risultato che gli organismi internazionali rischiano di riprodurre – e per giunta a un livello potenziato – i vizi della statualità. Tra l’altro lo Stato sorge essenzialmente alla periferia dell’Europa (Sicilia, Francia, ecc.) e nasce dalla sconfitta del tentativo imperiale. Ciò che non riuscì all’imperatore fu invece ottenuto dai re. Ora il rischio è di vedere i nuovi sovrani cartellizzarsi in un edito e minaccioso Impero.
Vista la sua tesi, la maggior parte dei liberali classici e dei libertari ha forse sbagliato nel pensare di poter condurre una lotta al potere statale che fosse solo di tipo economico?
Mostrare l’irrazionalità e di conseguenza il carattere fallimentare dei sistemi economici sociali organizzati dall’alto – in vario modo regolati, pianificati, programmati – è importante. Ma ritengo che un liberalismo consapevole debba cercare di comprendere per quali ragioni il potere è tanto forte e perché, in una nuova versione della “sindrome di Stoccolma”, molte vittime sono così innamorate dei propri carcerieri. Un liberalismo dei diritti che non poggi in qualche modo sul riconoscimento della trascendenza dell’altro – del valore assoluto del prossimo – è destinato prima o poi a dissolversi.
pubblicata in origine su Fare Italia Mag all'indirizzo:
Per gentile concessione dell'autore
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